giovedì, giugno 17, 2010

PI: Islanda, paradiso dei giornalisti?

  • Approvata all'unanimità una proposta di legge caldeggiata da Wikileaks. Che dovrebbe trasformare l'isola nordeuropea in un porto franco per il giornalismo d'inchiesta e la pubblicazione anonima delle notizie

Roma - Cinquanta voti a favore, zero contrari, un solo astenuto. Questo il risultato di una recente seduta del Parlamento islandese, che ha quindi approvato all'unanimità quella particolare proposta di legge sui nuovi media che dovrebbe trasformare l'isola nordeuropea in un vero e proprio paradiso per giornalisti.

Approvata dunque quella che è stata più volte definita la più forte legge al mondo sulla libertà d'informazione, in particolare dalla parlamentare Birgitta Jónsdóttir, tra i suoi principali sostenitori. Un'iniziativa che mira a raccogliere le migliori predisposizioni di legge al mondo, in vista di una sorta di super-legge che riconosca una volta per tutte il valore di un'informazione senza confini nazionali.

Ma di confini, in effetti, si è parlato, dal momento in cui la sola terra islandese dovrebbe trasformarsi in una sorta di porto franco per il giornalismo d'inchiesta nonché per la pubblicazione anonima da parte di fonti spifferone. Proprio come il celebre sito delle soffiate Wikileaks, il cui founder Julian Assange è tra i principali promotori della proposta di legge.
È stato infatti Assange ad annunciare gli esiti dell'approvazione del Parlamento, parlando di un rifugio per i nuovi media in terra islandese, dove ci sarebbe attualmente la più forte stampa del mondo e una legge di prossima implementazione che proteggerà ancora meglio la pubblicazione anonima delle notizie.

Secondo Jónsdóttir, i contenuti della prossima legge avrebbero attirato una parte della stampa internazionale - tra cui Der Spiegel e ABC News - che starebbe vagliando l'ipotesi di trasferire le pubblicazioni di natura investigativa in Islanda. Che dovrebbe quindi proteggere le fonti da qualsivoglia imposizione, compresa censura preventiva, proveniente da leggi di paesi esterni.

Un paradiso, dunque, che tutelerà le pubblicazioni anche da reati come quello legato alla diffamazione a mezzo stampa o web. Ma non tutti sembrano aver esultato. Secondo il Citizen Media Law Project, ci sarà sicuramente una maggiore tutela per i server operanti in Islanda, ma la pubblicazione incriminata potrebbe rimanere punibile o censurabile secondo le varie leggi internazionali.

Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2917110/PI/News/islanda-paradiso-dei-giornalisti.aspx


mercoledì, giugno 09, 2010

Bufale d'autore: Gigi D'alessio&TG2 (2)

Dopo aver scritto al direttore del TG2 siamo andati nel sito di Gigi D'Alessio. Dopo aver cliccato sul link :scrivi alla redazione, abbiamo inviato il seguente messaggio:

"Ho sentito pochi minuti fa al tg2 che il signor D'alessio avrebbe inventato un nuovo formato, l'mp4.
Ho già scritto al direttore del tg2 per avere delucidazioni in merito.
Da parte del signor D'alessio vorrei sapere se davvero si è attribuito l'invenzione o ha in qualche modo inspirato l'affermazione fatta nel servizio.
Riferimento: TG2 ore 13, martedì 8 Giugno 2010.
In attesa di cortese riscontro,
Marino Pietrella
http://www.diritto-internazionale.com
"

Restiamo in curiosa attesa di risposta. Ma ce ne sarà una?
Ne dubitiamo, dunque ci prepariamo a riproporre l'argomento in tutte le aree disponibili. ... E dire che i napoletani ci sono UN SACCO SIMPATICI!!



Bufale d'autore: Gigi D'alessio&TG2

Riportiamo la lettera scritta ieri nell'area "scrivi al direttore"
Ho appena sentito (ultima notizia del tg2 ore 13 martedì 8 Giugno) che Gigi D'alessio avrebbe inventato un nuovo formato digitale, l'mp4.

MP4 è l'estensione di files MPG4.
Da wikipedia:
"nato nel 1996 e finalizzato nel 1998 (fu presentato pubblicamente ad ottobre di quell'anno), è il nome dato a un insieme di standard per la codifica dell'audio e del video digitale sviluppati dall'ISO/IEC Moving Picture Experts Group (MPEG). L'MPEG-4 è uno standard utilizzato principalmente per applicazioni come la videotelefonia e la televisione digitale, per la trasmissione di filmati via Web, e per la memorizzazione su supporti CD-ROM.
MPEG-4 è basato sugli standard MPEG-1, MPEG-2 e Apple QuickTime technology, supportandone tutte le caratteristiche; ISO approvò il formato QuickTime come base per lo standard MPEG-4, l'MPEG group riteneva infatti che fosse la migliore base di partenza e che integrasse già alcune caratteristiche essenziali[1]; lo standard evolutosi possedeva inoltre tutta una serie di nuove funzioni come la gestione tridimensionale degli oggetti (tramite un'estensione del VRML). I flussi audio e video vengono trattati dallo standard MPEG-4 come oggetti che possono essere manipolati e modificati in tempo reale bidirezionalmente. Lo standard supporta caratteristiche specificate da terze parti come una particolare gestione dei DRM o una gestione interattiva dei contenuti.
La maggior parte delle caratteristiche dell'MPEG-4 sono opzionali e quindi la loro implementazione è lasciata alla discrezione dello sviluppatore. Questo implica che parte dei lettori multimediali di file MPEG-4 non saranno magari in grado di gestire tutte le caratteristiche del formato. Per permettere un'elevata interoperabilità, nel formato sono stati inclusi i concetti di profilo e di livello, quindi i vari lettori MPEG-4 potranno essere suddivisi a seconda dei profili e livelli supportati."

Andrò ora nel sito di Gigi D'alessio per sapere se ha in qualche modo affermato o lasciato intendere di essere l'inventore di questo formato. Il lettore che ha mostrato nel servizio è in vendita in qualsiasi negozio/bancarella/bazar cinese oltrechè ovviamente online.
Sono sinceramente allibito difronte all'affermazione conclusiva del servizio, secondo la quale l'mp4 è frutto di un ingegno napoletano(quello di Gigi D'Alessio), per combattere la pirateria....


domenica, giugno 06, 2010

Il Fatto Quotidiano sbarca sul web e chiede aiuto alla rete
4 giugno 2010

Fra poche settimane lanceremo la nostra nuova edizione on line. Ma per garantire la libertà di informazione tutti quelli che hanno un blog o gestiscono un sito devono darci una mano

Dunque ci siamo. Tra poche settimane Il Fatto Quotidiano sarà finalmente on line. In queste ore i nostri tecnici e i nostri giornalisti sono al lavoro per stabilire la data definitiva dell'uscita del sito in versione Beta. Poi, per tutta l'estate vedremo come funzionano le cose, ascolteremo i suggerimenti che ci arriveranno dalla rete, e entro l'autunno lanceremo la versione definitiva. Abbiamo molte idee. Le principali sono comunque due. La prima: fare anche sul web informazione senza padroni e censure. La seconda: dar vita a un sito che possa accogliere le opinioni e i pensieri di tutti, selezionando quanto ci sarà inviato o troveremo in Rete.

La sfida, non lo nascondiamo, è molto difficile. In redazione siamo in pochi e questa volta per coprire le spese e avere i capitali necessari per i nuovi investimenti dovremo raccogliere pubblicità. Per questo Il Fatto Quotidiano on-line dovrà avere tantissimi visitatori. Noi contiamo di riuscirci continuando a dire le cose che gli altri non dicono, raccontando storie e notizie che è impossibile leggere altrove. Ma questo non basta. Dobbiamo farci conoscere. Ed è qui che chiunque tiene alla libertà di parola, chiunque pensa che l'informazione nel nostro Paese sia messa in ginocchio non solo dalle leggi bavaglio, ma anche da giornali e tv al servizio del potente di turno, può darci una grossa mano. Vogliamo che tutti, ma proprio tutti, sappiano che il nuovo sito de il Fatto Quotidiano sta venendo alla luce. Per questo chiediamo ai blogger e a chi gestisce un sito di aiutarci mettendo a disposizione i loro spazi sul web per la nostra campagna di lancio. Stiamo lavorando a dei banner davvero poco convenzionali. Se siete disposti a ospitarli segnalate il vostro link a questa mail: iosupporto@ilfattoquotidiano.it

Entro pochi giorni verrete ricontattati e vi verrà fornito l'indirizzo di un link da dove potrete prendere il codice da inserire nella vostra pagina internet. La nostra richiesta è di tenere il tutto on line nel periodo di lancio del sito, che vi verrà comunicato quanto prima.

Del banner non convenzionale vi verranno anche fornite le specifiche tecniche e un tutorial utile per inserirlo correttamente . In alternativa abbiamo a disposizione anche un banner, per così dire, normale. In ogni caso l'importante è essere in tanti. Perché l'informazione libera è un bene di tutti e solo tutti assieme possiamo difenderla. E farla crescere.

Peter Gomez e Marco Travaglio

sabato, giugno 05, 2010

Anche noi abbiamo pubblicato la bufala, prendiamo atto che lo era.

Marco
Fioretti in STOP.ZONA-M
scrive:
A maggio e dicembre 2009 la Rete italiana è stata sommersa da un comunicato sull'avvenuta approvazione (che invece non era avvenuta) di un emendamento che avrebbe introdotto il carcere per i blogger disobbedienti: i dettagli sul perché questa era una bufala anche allora li trovate in un altro mio articolo. Purtroppo ho appena scoperto (24 maggio 2010) che su Facebook e tanti altri siti questo mese è riapparso, spacciato come vero e recente, quello stesso comunicato!
Provare per credere: cercate su Internet la frase (virgolette comprese) "Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733)" e poi ripetete la stessa ricerca ma solo sulle pagine pubblicate a maggio 2009 (se non sapete come, ecco le istruzioni per trovare con Google solo le pagine pubblicate in uno specifico periodo).
Nel secondo caso troverete diversi siti che hanno pubblicato quel comunicato a maggio 2009 (e già allora era falso ]). Nel primo, troverete centinaia di siti che hanno pubblicato quel testo a maggio 2010 senza cambiare o aggiungere una parola: quindi chi li legge capisce che l'emendamento è passato ("Ieri...") a maggio 2010!

Aggiornamento 29/5/2010: Ecco la smentita ufficiale in data 27 maggio 2010 sul sito dell'UDC:

"Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50bis: /Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet. La prossima settimana il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60. Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della ‘Casta'..."

Questo l'inizio di un messaggio che da settimane circola su web, su numerosi siti e blog, pubblicato sempre nella stessa forma. Si tratta di un ‘fake', ovvero di una notizia priva di fondamento, come spiega in un video messaggio il capogruppo Udc a palazzo Madama, Gianpiero D'Alia: "Per la verità al Senato non si discute alcun pacchetto sicurezza e non vi è alcuna norma bavaglio ad esso collegata".

Nello smentire "queste scemenze" D'Alia invita tutti a non distrarsi da un provvedimento vero, il ddl intercettazioni, che così come è attualmente configurato "rischia di ridimensionare fortemente il diritto di cronaca e di indagine".

"La maggioranza - conclude - ha approvato in Commissione la legge di riforma delle intercettazioni che limita fortemente la possibilità di informare i cittadini anche attraverso la rete oltre che sui giornali. Di questo dovremmo occuparci tutti insieme e non di notizie false e datate".




Europa, crisi o fine?


Le due Europe. Di una tragedia (greca) senza catarsi
Quel che insegnano i fatti di Atene di Etienne Balibar, il manifesto, 27 maggio 2010

In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi.Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.

I greci hanno ragione a rivoltarsi
Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese.Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazone, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell' «ortodossia».

Una politica che occulta il suo volto
Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.
Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:
- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.
- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.
- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori.E sicuramente viene fatto apposta.

Dove va la globalizzazione?
A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidaile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.
Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazoni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.

Populismo: pericolo o risorsa?
E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).
Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne apporofittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.

Dov'è la sinistra europea?
Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.
Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialemente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su cio' che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.

Traduzione di Anna Maria Merlo