domenica, maggio 30, 2010

Di molti, ma non di tutti: i diritti come patrimonio etnico. Intervista a Nadia Urbinati
da "Una città", n. 174, maggio 2010, via Eddyburg.it

Diritti, cittadinanza, lingua, religione, tutto diventa patrimonio etnico di una maggioranza che decide chi potrà accedere ai diritti e chi no; la novità di una reazione identitaria, comunitaria, che si combina con l’accettazione piena del liberismo economico; in Europa un attacco antilluministico senza precedenti.

In tutta Europa avanzano partiti xenofobi. Da quel che abbiamo capito tu sei molto pessimista e preoccupata. Cosa sta succedendo?
Mi sembra che sia in corso una trasformazione della democrazia in Europa, non solo in Italia. Stiamo assistendo al declino delle filosofie universalistiche, ma, paradossalmente, non in filosofia, bensì in politica. Nelle accademie le filosofie universalistiche sono egemoni. Ci sono certo stati revisioni e adattamenti; tentativi di armonizzare conoscenza locale e universale, multiculturalismo e liberalismo. Per esempio dopo più di vent’anni di fruttuoso dibattito, i comunitari hanno stemperato le loro posizioni particolaristiche. Del resto, non bisogna dimenticare che le filosofie più attraenti, diciamo più in vista, sono quelle legate a visioni universali della natura umana, all’idea di flourishing, di benessere della persona: pensiamo a Marta Nussbaum o Amartya Sen. Quindi c’è un quadro teorico ben strutturato in chiave universalista.

Ma questo riguarda l’accademia, è contenuto nei libri che leggiamo; che leggono pochissime persone. Se usciamo da questo gruppo ristretto e anche specialistico, vediamo uno scenario molto diverso. Nella realtà quotidiana nella quale viviamo, per esempio nell’Occidente europeo, sembra che si stiano verificando cose completamente diverse: l’universalismo è sotto attacco. Qui l’idea di uguali diritti è sotto processo, la stessa idea di integrazione europea come una grande casa comune di liberi e diversi è a rischio, almeno sotto il profilo ideologico. Le regole ci sono ancora, certamente; la moneta unica c’è ancora (benché sotto tiro del capitale finanziario globale), le istituzioni che presidiano i diritti e l’eguaglianza, come la Corte, ci sono ancora; però quello che viene avanti con sistematica tenacia, a livello nazionale degli Stati membri, è un attacco frontale all’universalismo, ai diritti individuali, all’idea di persona scorporata da ogni identità locale. Nel mondo della vita concreta delle nostre società c’è una rinascita del comunitarismo, di un comunitarismo etnico, radicato in presunte tradizioni, pre-politico. L’abbiamo visto nelle ultime elezioni in Ungheria, nella civilissima Olanda, poi in Italia, in Polonia: ci sono fenomeni che vanno esattamente verso una disgregazione delle grandi costruzioni post-nazionali nate in nome di ideali universalistici di pace, di unificazione, di cosmopolitismo, di inclusione. Le nostre Costituzioni, le carte dei diritti, le convenzioni internazionali, l’Unione Europea, sono nate proprio in reazione e per opporsi alle esperienze totalitarie fasciste, che erano e sono profondamente identitarie.

Sì, è vero che, nel caso di quei totalitarismi, più che un’etnia c’era un’ideologia invadente e potentissima che esaltava un ordine nel quale il partito era integrato allo Stato; tuttavia, il totalitarismo, il nazionalismo fascista erano comunque forme anti-illuministe, anti-individualiste (se dell’individualismo abbiamo una visione liberale), senza meno. Le nostre Costituzioni sono nate proprio per proteggerci da queste orrende cose.

Ora, questo che accade sotto i nostri occhi ci dice invece che non siamo per niente protetti, che queste carte costituzionali non ci proteggono abbastanza, perché forse nel frattempo non si è voluto curare il male profondo che c’era all’origine, che sono i fondamenti culturali dell’ideologia identitaria delle democrazie europee; vizi che non si sono mai corretti, mai sciolti, mai emendati. Le nostre democrazie europee sono nate su un elemento identitario. La nazione per tanto tempo ha avuto una funzione democratica, emancipatrice, “una nazione di cittadini”, come dice Habermas, e non di membri. Benissimo. Però in situazioni come questa, forse per ragioni che gli economisti, i sociologi e i pubblicisti dovrebbero analizzare (cioè per cause economiche, di declino del benessere), assistiamo a una rilettura della nazione in chiave etnica.

I diritti diventano un patrimonio etnico?Esattamente: è l’identificazione della libertà, e quindi dei diritti, col possesso; il possesso del suolo, il possesso di una cultura, il possesso di una lingua, il possesso di una religione. Ora, l’idea di possesso, l’idea, cioè, di essere noi i possessori legittimi di quella che chiamiamo la nostra terra, la nostra nazione, la nostra stessa Costituzione, ci induce a leggere i diritti non come uno strumento che stempera questo istintivo possessivismo che esiste nella nostra storia, ma che invece lo fagocita. Quando si vogliono tener fuori gli immigrati, non li si vuole solo tener fuori fisicamente dai nostri confini (spesso vengono in realtà accettati), ma li si vuole tener fuori anche quando sono dentro, quando vivono sotto le nostre leggi e pagano come noi le tasse; li si vuole escludere dalla cittadinanza attiva, da una democrazia attiva. E perché? Perché, si sente dire sempre più spesso, i diritti appartengono a noi.

Ma stiamo attenti, perché queste nuove forme di pensiero comunitario o anti-illuminista non sono un ritorno indietro. I comunitari etnici di oggi non vogliono ritornare a vivere come si viveva prima della società di mercato, prima della rivoluzione, prima, prima... Non ci pensano nemmeno: questi amano la tecnologia, sono figli del nostro tempo, non rifiutano per niente il liberalismo economico, non rifiutano per niente il mercato. E così si crea un’alleanza anche stretta fra queste forme, che sembrano retrograde, e le forme più avanzate di tecnologia e di cultura politica come il liberalismo, per esempio. Questo connubio non appartiene alle forme di comunitarismo del passato o alla tradizione antilluministica classica, è nuovo.

Si è detto anche che i diritti li si deve meritare…Sì, e francamente di tutta questa grande manfrina che si è fatta sul merito non se ne può più. Sembra che tu il merito ce l’abbia dalla nascita, che non sia, cioè, qualcosa di costruito, di situato in una società, secondo le capacità di cui la società ha bisogno, dei criteri di valutazione in base all’utile sociale. Oggi c’è l’idea che tu devi meritare le cose che hai senz’altra specificazione. Ma ci sono cose che, meritate o no, le hai, punto e basta. Tu hai dei diritti perché sei un essere umano, non devi meritarteli. Questa è la tradizione del mondo occidentale, dalla Rivoluzione francese in poi, questo è il punto fondamentale della nostra politica, che si chiama Stato costituzionale, Stato di diritto, eccetera. Oggi, invece, con questa idea di nazione non più legata alla legalità, al diritto, ma all’etnia, all’identità culturale, una maggioranza potrà decidere se tu ti meriti o non ti meriti un diritto, se tu potrai appartenere al gruppo che detiene i diritti o no.

E’ una concezione da democrazia “maggioritaristica”, in fondo dispotica, in cui il gruppo di maggioranza decreta se gli altri meritano di accedere alla stessa mensa o se dovranno restar separati.

La stessa religione entra a far parte dei possedimenti…
Ma la religione non è “possedere” una fede o una tradizione, ma “credere”, esercitare una libertà di credere. Dice Tocqueville: “Solo i popoli liberi hanno fede”. Gli altri non hanno fede, perché la fede è uno degli atti più liberi: diversamente c’è ipocrisia, la negazione della fede. C’è libertà di religione non solo per consentire agli altri di esistere, ma per consentire a te di esprimere la tua fede. La fede non è una cosa che possiedi, è un esercizio, un’espressione, una pratica, quindi hai bisogno di un diritto. Invece no, sembra che oggi la fede non sia più fede, ma essenzialmente religione costituita: noi la possediamo, questa è la nostra, gli altri possiedono la loro e devono star fuori, perché altrimenti ce la contaminano. L’idea sempre più diffusa, che fa veramente paura, è quella del possesso dei diritti.

Ma questo possesso, ed è qui il problema secondo me su cui bisognerebbe lavorare molto, non è -lo ripeto- necessariamente in contraddizione con la modernità e le forme estreme di liberalismo. Quando dico forme estreme di liberalismo intendo quelle che insistono molto sul successo, sulla capacità di fare, di costruire, di produrre, di accumulare, che è una capacità che tu hai in un mercato libero, in una società che si basa sullo scambio.

Ricordo un libro molto bello, forse meritevole di rilettura, di Macpherson, Possessive liberalism. Ecco, oggi assistiamo alla coniugazione tra un liberalismo possessivo, basato sull’idea che tu possiedi quello che è l’esito del tuo lavoro, la tua energia, la tua vita, e l’idea di una comunità possessiva a livello comunitario. Questa idea del “possesso” travalica l’economia, per diventare un minimo comune denominatore che può unire tutto. E infatti, fra questi comunitari del possesso, possiamo trovare dei veri e propri fascisti, come in Ungheria, gente che ritorna a dire “il nostro suolo” senza odiare il liberalismo. Questa che sembrava una bestemmia non lo è più.

Ma vedi qualcosa di questo genere anche in Italia?
Certo, l’Italia è un caso esemplare. Si potrebbe pensare che l’alleanza fra Bossi e Berlusconi sia una pura alleanza di governo; io penso invece che la convergenza sia profonda, perché i due movimenti sono legati nella cultura, fondata in entrambi i casi sul possesso.

Nel caso di Bossi, è il possesso del territorio, della lingua, della tradizione, secondo una visione etnica dell’identità, che si crede radicata o si pretende che lo sia, e rispetto alla quale si giudicano gli altri. I leghisti dicono: “la libertà nostra”, quindi una libertà radicata dentro di noi come etnia, non come esseri umani. Dall’altra parte, in una realtà mossa da valori opposti a quelli del radicamento nel suolo (il potere capitalistico è senza patria e non ha alcun radicamento, tanto più se è capitalismo finanziario) ritrovi dominante l’idea del possesso, un possesso strumentalmente funzionale al capitalismo globale: le istituzioni politiche, i diritti, la legge, tutto deve essere funzionale a questo possesso, ed è il possesso che determina il valore.

Berlusconi vuole mutare la Costituzione? Non dobbiamo pensare che sia un pazzo, oppure un vanaglorioso, oppure un tiranno. Forse è tutte queste cose insieme. Ma il suo “volere” ha una logica secondo la quale la dimensione materiale della vita, ovvero i rapporti di potere, di forza, i possessi, gli interessi, devono dettare le leggi e devono plasmare la dimensione istituzionale e normativa.

Quindi quell’idea antica per cui nella democrazia la politica dovesse avere una funzione non strumentale, e anche se, o proprio perché gli interessi si combattono in Parlamento, doveva cercare di mediare; l’idea cioè che ci dovesse essere una dimensione di impersonale separatezza, perché diversamente la legge di natura domina, portando al dominio del più forte; ebbene quell’idea è in declino. Infatti la dimensione impersonale e istituzionale sembra che non abbia più le risorse interne per essere autonoma, e viene quindi fagocitata, presa, rapita, dalla dimensione del possesso, sia esso del territorio, o dell’etnia, oppure del possesso vero, economico. Questo è uno scenario preoccupante, perché significa davvero che la Costituzione legale è il mezzo di quella materiale, affinché quella materiale faccia il suo corso. Quella materiale dice che i rapporti di potere presenti nella società, nell’economia, nella famiglia, invece di essere limitati, stemperati, controllati da un potere superiore, si prendono quel potere superiore e in questo modo si legittimano. Cioè l’abnormal becomes the norm, quello che è anormale si normalizza impossessandosi della legge.

La dimensione della separazione della sfera del possedere o della materialità, da quella della legge o della norma, o della impersonalità, viene così ad erodersi, a scomparire, in alcuni casi. Con nostro grave pericolo, perché è come dire che la vita come è nel presente contingente diventa la norma. Non c’è più una dimensione trascendente, che noi accettiamo e nella quale ci specchiamo come individui. E ritorna buono il detto di De Maistre: “Io non ho mai visto individui, ho visto francesi, tedeschi, italiani...”, cioè ha visto l’immediatezza della specificità, mai l’universalità del “come se”, della norma.

Noi europei, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo lottato per mantenere questo spazio trascendente e simbolico rappresentato dalle norme (che ha preso il nome di cittadinanza) separato dalla vita empirica concreta; lo abbiamo fatto proprio perché, come individui concreti, con una materialità, una locazione o una biografia specifiche, ci possiamo riflettere in quella dimensione universale e sentire che, oltre alla nostra realtà immediata, ce n’è un’altra alla quale apparteniamo e per mezzo della quale ci possiamo relazionare agli altri, a tutti, sia coloro che parlano la nostra lingua sia gli stranieri. Ecco, questa trascendenza rispetto alla vita, alla quotidianità, all’essere come è, nella dimensione di vita irriflessa, pare cadere.

L’idea che vive nella cultura popolare è che chi vince si impossessa delle regole; se abiti questo territorio, immediatamente stabilisci chi è dentro e chi è fuori, stabilisci che tu sei il territorio, te lo prendi, è tuo. Questo io penso che sia spaventoso…

Il federalismo qui diventa qualcosa di molto cupo

Ma è esattamente l’opposto di quello che pensava chi apparteneva alla tradizione liberal-socialista, o i federalisti di Ventotene. Loro pensavano al federalismo esattamente come a un modo per unire, in una dimensione superiore alla nazione, popoli diversi. Si partiva dal luogo, perché erano democratici quasi più vicini alla democrazia diretta che a quella rappresentativa; si partiva dalla vita della città o della propria regione, per potere interagire con gli altri e vivere una dimensione quasi cosmopolita, universale. Quindi il federalismo era un modo per ascendere dalla materialità della specifica vita alla dimensione generale, astratta o universale. Oggi avviene l’opposto: il federalismo viene rivendicato per andare giù, per togliersi da questa dimensione, e tornare al particolare della vita, a quella vita del quotidiano, alla vitalità del luogo, dell’etnia, più o meno inventata non importa.

Il paradosso è che anche le categorie dovrebbero essere riscritte, perché questi comunitari del possesso usano le nostre stesse categorie, ma le declinano in tutt’altro modo. La parola federalismo usata da loro non ha nulla a che vedere con quella che usava un illuminista. La parola libertà nemmeno: quando usano la parola libertà, loro intendono “la libertà nostra”.

Questo rovesciamento dei valori, per cui le stesse parole non significano le stesse cose, è parte di questo grosso problema.

Ecco perché chi ha una cultura liberale e democratica si sente senza linguaggio, perché oggi le sue parole non verrebbero capite, verrebbero stravolte. Tu parli dei diritti? “Ah, ma io sono a favore dei diritti...”. Vogliamo la scuola... “Ah, ma io sono a favore delle nostre scuole...”. Tu credi che la Lega, se vince in Emilia-Romagna, voglia togliere le scuole materne pubbliche? “Per carità di Dio, gli asili vanno bene, sono i nostri servizi sociali”... i nostri, i nostri... “Anzi, li vogliamo perfezionare, li vogliamo rendere ancora più belli, purché siano nostri!”.

Quindi si appropriano di parole, conferendo loro un significato diverso, e noi, quelli che hanno idee ancora universaliste, nonostante tutto, facciamo fatica, perché ogni volta dobbiamo specificare, fare uno sforzo doppio, quasi meta-linguistico, perché prima di parlare abbiamo bisogno di premettere: “Io intendo questo” quando uso questa parola. Ma così si perde il senso della comunanza della parola, la grammatica comune si rompe. Se dobbiamo discutere delle parole che usiamo prima di cominciare a parlare, finisce che smettiamo di parlare. Non c’è più accesso alla discussione, perché il linguaggio, la grammatica, la sintassi, cioè le regole della discussione, sono possedute da quel particolare di vita, da quella materialità che è loro. Ripeto, si è erosa quella dimensione astratta, quella dimensione universale nella quale tutti potevano entrare. E’ debilitata la dimensione dell’impersonale, quella di cui parlava Rousseau: la cittadinanza fuori e sopra la nazione, la cittadinanza non nazionalistica, non etnica; l’essere cittadini al di là dell’essere individui privati.

Beh, è in discussione la concezione della democrazia. Anche Habermas è sotto accusa in questo momento. Quando lui comincia a parlare di religione, che è necessaria e utile, e quasi accetta l’osservazione di Böckenförde per cui i paesi liberaldemocratici, o gli Stati liberal democratici, non avendo in sé l’energia per riprodurre i proprio valori, devono andare a prestito dalla religione, per esempio, perché la religione crea solidarietà, mentre la legge no... E allora, tu dici “la colpa è della sinistra”.

Mah, il fatto è che quando sono state scritte le Costituzioni, tra il ‘46 e il ‘48, in Italia, in Germania ecc., i teorici della democrazia, da Aron al nostro Bobbio, avevano il terrore di sostanzializzare i valori politici, proprio perché venivano da una ipersostanzializzazione: lo Stato etico trasformato in Stato totalitario. Per cui c’è stato un ritirarsi dell’etica, e le norme, le regole, l’imparzialità dei processi, sono diventate il luogo di libertà. Questo è stato la creazione degli Stati democratici in Europa. Evidentemente queste norme non sono però capaci di creare l’etica. C’è dunque una responsabilità nella teoria moderna della democrazia, in questo fissarsi esclusivamente sulle procedure, le norme e le regole, senza la dovuta e necessaria attenzione alla dimensione etica della democrazia, all’ethos della democrazia, appunto. Ha un ethos, la democrazia? Aron e Bobbio credevano che non ce l’avesse, perché la democrazia era appunto le regole del gioco, un sistema per risolvere i problemi in una dimensione di decisioni collettive: ci mettiamo insieme e per risolvere usiamo le regole democratiche, ovvero il voto, la maggioranza e minoranza, ecc. La democrazia non aveva valore sostanziale, se non per questo: rendeva possibile la pace (che è certo un valore di grande sostanza!). In fondo la battuta di Churchill - la democrazia è il migliore dei peggiori governi - è diventata il modo di dire di tutti, fino allo stesso Rawls.

Quindi c’è questo aspetto negativo incorporato nella democrazia: noi non possiamo farne a meno, però dobbiamo riconoscere che non è il migliore governo possibile, perché dovrebbe governare la competenza, non il numero. Questa è una lacuna profonda del pensiero democratico, che non ha saputo dare a se stesso qualcosa di più.

Habermas è forse il solo ad aver fatto un tentativo in questa direzione, peraltro in modo egregio, però affidandosi di fatto alla ragione razionalista: non solo la norma, ma il dialogo razionale. E’ la lingua ad unirci, a consentirci di dirimere le controversie. E’ questo elemento razionale che è dentro la lingua, il linguaggio, che ci consente di dialogare. Tuttavia questo funziona, se, come abbiamo detto prima, c’è un consenso sulla lingua e sull’uso della grammatica e delle parole, cioè se siamo nella stessa famiglia che parla; se, infine, non abbiamo ideologie forti che ci oscurano la capacità razionale e la possibilità di riconoscere che abbiamo sbagliato e di cambiare idea.

Secondo Habermas la parola, al di là dei diversi linguaggi, è la struttura normativa che unifica il mondo umano, tutti i parlanti, a prescindere dalla lingua che pratichiamo. Il linguaggio ci unisce anche quando abbiamo lingue diverse. Habermas ci credeva perché era un illuminista. Era molto diffidente sulla ricerca di una dimensione etica. Per esempio, non ha mai accettato il repubblicanesimo, perché lo ha identificato col civismo, col mito della virtù, e però... Però forse è necessaria un’addizionale. Probabilmente la democrazia va anche insegnata, non soltanto praticata. Ci sono dei valori che vanno insegnati. I valori dell’uguaglianza, per esempio, di cui oggi nessuno vuol più sentire parlare…

Forse, e tu lo dici da un po’, la democrazia rappresentativa non può fare a meno della vitalità associazionistica...
Certo, la società civile è importante perché come sappiamo l’associazionismo garantisce il pluralismo. Però, anche in questo caso, il quadro universalistico resta decisivo. Perché se queste realtà non sono interpretate all’interno di una dimensione generale, universale, si rischia una forma di neomedievalismo, un pluralismo normativo in relazione al quale l’uguaglianza perde di rilevanza, poiché ci sono associazioni che hanno più peso e altre che ne hanno meno, e poi all’interno di ciascuna ci sono associati che hanno più potere e altri meno, e poi c’è chi usa le associazioni per difendere ciò che ha. Senza una dimensione della legge generale o statale, l’associazionismo -e Tocqueville lo diceva molto bene- diventa il luogo per la libertà (solo) di alcuni.

Comunque è riduttivo dire che viviamo in un momento di reazione anti-moderna perché rischiamo di non vedere bene il pericolo. Un conto è la reazione contro l’universalismo quando l’universalismo non c’è ancora: dopo la Rivoluzione francese, la reazione, la restaurazione contro i lumi, è la restaurazione di pochi, di una minoranza. Dov’era l’universalismo in quel tempo? Non nelle leggi e nella società, ancora. Lo stesso liberalismo era essenzialmente quello dei proprietari.

Tutt’altra cosa è una reazione contro l’universalismo da parte di coloro che godono dell’universalismo dei diritti. In questo caso, è come un essere reazionari in un mondo di libertà, che ha la libertà. Nel 1815, la libertà dov’era? Quella che portava Napoleone, d’accordo, ma era pur sempre una libertà imposta e della quale godevano gruppi ristretti. Oggi invece c’è la libertà di milioni di persone, che hanno uguali diritti. E’ in questa situazione che noi abbiamo una reazione contro l’universalismo: ecco perché parlo di figure dispotiche in democrazia. Perché una massa di individui, che sono uguali per legge e sono uguali anche nelle opportunità di scambio, di acquisto, di possesso, pensano di costruire la “repubblica degli uguali” tra loro. Il loro universalismo si chiude a quello degli altri e diventa veramente la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio. A rigore bisogna allora parlare di reazione contro i principi democratici all’interno di un mondo che è democratico.

Così la libertà, ma anche l’asilo nido, diventano privilegi...

Diventa tutto patrimonio degli uguali, di “noi”. E’ proprio la democrazia dispotica di cui parlava Tocqueville alla fine di Democrazia in America. Si mette un po’ di filo spinato intorno e si dice: noi siamo gli uguali e dobbiamo difendere questa nostra uguaglianza. E’ il modello spartano, il modello degli uguali, la democrazia dei molti ma non di tutti, la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio, di cui Tocqueville aveva terrore. Quindi non è che noi non saremo più liberi, non è che noi perderemo la libertà, no, no, noi compreremo, venderemo, accenderemo il nostro computer, vivremo uniti, usciremo di sera senza incorrere in alcun coprifuoco. Ma sarà una libertà nostra, appunto, una libertà tra noi, chiusa agli altri. Quindi l’Europa, che è fatta di democrazie fondate sulla “nazione”, quindi già limitate nella loro espansione, si chiuderà ancora di più per conservare quella libertà formatasi nella cultura universalista, che ora viene rigettata.

Certo, quando tu separi la libertà dall’uguaglianza, la libertà diventa un privilegio. Ma quando i leghisti “conquistano” queste terre, mica si propongono di diminuire le libertà o di togliere dei benefici sociali. No, no, semmai li vogliono rafforzare, ma saranno le “loro” libertà, i “loro” benefici. E chi è fuori è fuori. Quando la libertà viene dissociata dall’uguaglianza, dall’universalismo, si crea una trasformazione del diritto in privilegio.

Tutto va in questa direzione ed è veramente una cultura egemonica di destra in tutti i sensi. La destra, in fondo, a partire dalla Rivoluzione francese, ha sempre osteggiato l’uguaglianza, come ha ben mostrato Bobbio. Il problema è questo: non è che ci tolgano la libertà, quello che ci tolgono è l’uguale libertà, per cui, ad esempio, i poveri tra un po’ verranno visti come tali. D’altra parte cos’è la carta sociale, la social card, istituita da questo governo? Io la chiamo “carta di povertà”, perché bisogna chiamare le cose col loro nome. A prescindere dal fatto provato che non ha funzionato anche per mancanza di finanziamenti, la carta di povertà è una certificazione di chi è povero; “fa vedere” il povero quando ne fa oggetto di carità pubblica. La verità è che quando si rompe il fronte dell’uguaglianza non si sa più dove si finisce. I bambini che vengono cacciati dalla mensa, perché poveri, sono una conseguenza molto eloquente di un rovesciamento della democrazia. L’universalità di cittadinanza serve appunto a eliminare lo stigma, a farci sentire uguali. Il sentimento dell’autostima, del sentirsi uguali, è potentissimo perché genera il senso della dignità. Ma quando tu umilii una persona davanti agli altri, quando trasformi la sua specificità o la sua difficoltà in un fatto discriminante, di ineguaglianza, allora l’altro si sente un inferiore, un poveraccio. Ma attenzione, perché se si interrompe l’uguaglianza una volta, la si interrompe sempre. Non è che si possa dire: ci fermiamo qui, perché quando la logica della esclusione e della discriminazione è entrata nella pratica pubblica, allora ci sarà sempre una ragione per applicarla.

Ecco perché le nostre società sono anche reazionarie oltre che conservatrici: perché partono con una limitazione dell’uguaglianza, ma poi continuano per arrivare al governo dei pochi lungo un percorso che pensa di limitare la libertà a “noi” soltanto.

Si dice spesso che questa è una ”democrazia autoritaria”. Ma non esiste una democrazia autoritaria. Gli autoritari se ne vogliono impossessare per poi trasformarla in qualcos’altro, che è il governo oligarchico.

Per questo l’uguaglianza è un principio fon-da-men-ta-le per la democrazia. Si dice: “No, lo è più la libertà”. Io non condivido questa priorità della libertà. Bobbio aveva perfettamente ragione: “Guai a pensare che una possa stare senza l’altra”. Si chiamano infatti uguali libertà: c’è un primato di entrambe oppure entrambe vengono a cadere. L’uguaglianza, diceva Condorcet, è un diritto fondamentale, è sbagliato considerarlo come uno strumento; è il diritto degli esseri umani, tutti, di appartenere allo stesso gruppo umano, di chiamarsi “esseri umani”, è la dichiarazione di unità degli esseri umani. Questa è l’uguaglianza: io ho il diritto di essere uguale a te.

Invece adesso c’è una reinterpretazione dell’uguaglianza, scritta all’interno, appunto, delle comunità specifiche. Questa traiettoria può portare alla distruzione della democrazia. Quindi il “dispotismo” dei molti è un passo in un movimento che va in direzione opposta: verso una società oligarchica, in cui i pochi, quelli che hanno più possesso, più uguaglianza tra loro, riusciranno ad avere il potere sugli altri.

In sostanza è davvero una fase di reazione contro la democrazia, se per democrazia si intende l’uguale libertà e l’universalismo che ci consente, con la cittadinanza, di trascendere la nostra vita specifica locale, quotidiana, economica, sociale, e di sentirci cittadini uguali. Perché anche il sentire è importante; se non ti senti inferiore a nessuno, e nessuno ti fa sentire inferiore, l’essere non ricco non ti fa sentire perdente; l’orgoglio della cittadinanza democratica è psicologicamente, oltre che eticamente, liberante. E’ un orgoglio buono.

(26 maggio 2010)

venerdì, maggio 28, 2010

Un grande evento per la città di Roma e per l'Italia
ARTE
I nuovi musei Maxxi e Macro
il grande show del contemporaneo
C´è tutto il mondo dell'arte a Roma nei tre giorni in cui aprono i due spazi realizzati da Zaha Hadid e Odile Decq. Da venerdì 28 a domenica 30, mostre e inaugurazioni, cene private e cocktail
di FRANCESCA GIULIANI (La Repubblica)

Non è ancora chiaro se Odile Decq, l´architetta parigina che ha immaginato e poi, nell´arco di un decennio, realizzato l´ampliamento del Macro di via Reggio Emilia, si incontrerà con Zaha Hadid, la mente che ha generato il Maxxi, museo per le arti del XXI secolo di via Guido Reni. Di sicuro c´è che saranno loro le protagoniste dell´inaugurazione dei due nuovi musei, in una tre giorni che mobilita per intero il mondo dell´arte romana e internazionale. Al Maxxi sono cinquemila gli invitati venerdì 28, quindicimila gli ingressi gratuiti (esauriti on line) di sabato 29, più tutti coloro i quali potranno entrare pagando il normale biglietto da domenica 30 maggio (10 mila al giorno). Al Macro dichiarano di voler stare "sottotraccia" proponendo due giorni di open view agli spazi architettonici della Decq, ma sempre su invito. Intanto, in queste ore, le due grandes dames arrivano a Roma, per ritrovarsi proiettate in un circuito di vernissage, cene, serate e inaugurazioni varie che naturalmente comprende anche la fiera Road to Contemporary Art a Testaccio.

Apre le danze il Maxxi con un incontro stampa colossale giovedì mattina a cui sono attesi oltre mille giornalisti, ma non sarà presente il ministro Matteoli (è all´estero) né ha confermato Bondi mentre è ormai certa la presenza, in visita privata, del Presidente Giorgio Napolitano. Venerdì 28 maggio a partire dalle 19.30 e fino a notte fonda cocktail e musica per i cinquemila che hanno già il cartoncino d´invito, mentre altrettanti stanno tentando in ogni modo di aggiungersi alle liste degli ospiti. Intanto, sono in via conclusione gli allestimenti delle mostre che per la prima volta mettono davvero alla prova dell´arte gli immensi spazi della Hadid. Come "Gino De Domincis - L´Immortale" a cura di Achille Bonito Oliva, con lavori anche immensi come la "Calamita Cosmica"; a seguire, Kutlug Ataman; la mostra "Spazio" con opere dalla collezione del Museo e, per la sezione architettura, Luigi Moretti architetto. L´intero museo sarà completamente allestito. Tra gli invitati molto cinema, da Sorrentino e Garrone a Laura Morante, e tanti artisti, da Vezzoli a Penone alla Toderi, a Maurizio Mochetti, poi i costruttori, gli sponsor, i prestatori.

Di là dal quartiere Pinciano, a poco più di quattro chilometri di distanza, giovedì 27 (dalle 14 alle 18) una inaugurazione istituzionale cittadina per i nuovi spazi del Macro, visitabili anche l´indomani (9-18): un dedalo di 10mila metri quadri di museo nuovo di zecca a cui il pubblico potrà accedere anche l´indomani, venerdì 28 (su invito, orario 9-18) e poi il 29 e 30 prenotando sul sito www.macroeventi.org (45 minuti a visita). Venerdì sera sono un centinaio gli invitati al dîner noir di Odile Decq, dove sono attesi curatori dal Louvre e dal Beaubourg, gente di cinema e architetti. Nell´ala "vecchia" della ex Birreria Peroni, dal 1 giugno le mostre presentate dal direttore del museo, Luca Massimo Barbero, che proseguiranno per l´estate. Gli spazi della Decq chiuderanno per il completamento del cantiere; a fine anno l´apertura definitiva.

25 maggio 2010


martedì, maggio 25, 2010

Segnalazioni. Da leggere e far circolare!

"Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d.L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50-bis: /Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet;


la prossima settimana Il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60.


Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della"Casta".


In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i /providers/ dovranno bloccare il blog.


Questo provvedimento può far oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all'estero; il Ministro dell'Interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può infatti disporre con proprio decreto l'interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.


L'attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore; la violazione di tale obbligo comporta per i provider una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000.


Per i blogger è invece previsto il carcere da 1 a 5 anni per l'istigazione a delinquere e per l'apologia di reato oltre ad una pena ulteriore da 6 mesi a 5 anni perl'istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all'odio fra le classi sociali.


Con questa legge verrebbero immediatamente ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta !


In pratica il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia Facebook, Youtube e *tutti i blog* che al momento rappresentano in Italia l'unica informazione non condizionata e/o censurata.


Vi ricordo che il nostro è l'unico Paese al mondo dove una /media company/ ha citato YouTube per danni chiedendo 500 milioni euro di risarcimento.


Il nome di questa /media company/, guarda caso, è Mediaset.


Quindi il Governo interviene per l'ennesima volta, in una materia che, del tutto incidentalmente, vede coinvolta un'impresa del Presidente del Consiglio in un conflitto giudiziario e d'interessi.


Dopo la proposta di legge Cassinelli e l'istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al "pacchetto sicurezza" di fatto rende esplicito il progetto del Governo di /normalizzare/ con leggi di repressione internet e tutto il istema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare.


Tra breve non dovremmo stupirci se la delazione verrà premiata con buoni spesa!


Mentre negli USA Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet in Italia il governo si ispira per quanto riguarda la libertà di stampa alla Cina e alla Birmania.


Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati il blog Beppe Grillo e la rivista specializzata Punto Informatico.


Fate girare questa notizia il più possibile per cercare di svegliare le coscienze addormentate degli italiani perché dove non c'è libera informazione e diritto di critica il concetto di democrazia diventa un problema dialettico"


domenica, maggio 23, 2010

Partono i “Mondiali al contrario”. Il Sudafrica in Italia ci insegna la rivolta
di Ilaria Donatio (Micromega)

Chissà cosa penseranno i sudafricani di Abahlali baseMjondolo (‘quelli che vivono nella baracche’, in lingua zulu) delle parole di This time for Africa, l’inno ufficiale della Coppa del Mondo 2010, che si svolgerà in Sudafrica dall’11 giugno all’11 luglio: “Il momento è arrivato, cadono le mura, inizia l’unica battaglia. Non fa male il colpo, non c’è paura, scuotiti la polvere, alzati, e torna sul ring. E la pressione che senti, spera in te, è il tuo popolo!”. Un mix di folk, jazz e blues che canta un inno alla lotta per la liberazione e l’integrazione, tratto da una canzone camerunense, Zamina, riscritta e interpretata dalla cantante colombiana Shakira con l’accompagnamento dei Freshlyground, una band molto conosciuta di Città del Capo.

“Dovrei essere felice perché i mondiali si giocheranno a casa mia e invece non posso esserlo perché la Coppa esclude la maggioranza di noi”, racconta Philani che, insieme a Busisiwe e Thembani, sta attraversando l’Italia per la campagna dei ‘Mondiali al contrario’, promossa dal settimanale Carta insieme a due missionari comboniani di Castel Volturno, Filippo Mondini e Antonio Bonato. Un percorso inverso a quello ufficiale che ha preso il via due giorni fa nella capitale e si concluderà il prossimo 30 maggio.

Da Castel Volturno a Reggio Calabria, da L’Aquila a Chieti, da Pisa a Verona, da Santorso alla vicina Vicenza, da Milano a Varese, e poi a Torino e in Val di Susa, per tornare a Roma: al tour hanno aderito soggetti molto diversi tra loro, come centri sociali, amministrazioni comunali, parrocchie, pro loco e comitati civici. Un programma itinerante, fittissimo di appuntamenti (per conoscerne le tappe: clandestino.carta.org), lungo il quale i tre del movimento Abahlali incontreranno associazioni e singoli cittadini per raccontare che cosa significhi la Coppa del mondo per i sudafricani più poveri, per parlare della loro lotta per terra, case, dignità e democrazia nel Sudafrica post-apartheid, e “ascoltare – a loro volta – il racconto di chi si ostina a immaginare un altro mondo”.

Filippo Mondini è un missionario comboniano laico. Prima di tornare in Italia, a Castel Volturno per la precisione, Filippo ha vissuto per cinque anni in una delle tante baraccopoli, distante una sessantina di chilometri da Durban, nella repubblica sudafricana. Poco prima della partenza per questo ‘viaggio al contrario’, prova a spiegarci l’idea di lotta (“per l’autogoverno e l’autonomia e non per la conquista del potere”) che porta avanti il più grande movimento di impoveriti del paese, Abahlali, che si articola in oltre quaranta insediamenti di molte città – come la stessa Durban, Pinetown, Città del Capo, Pietermaritzburg e Port Shepstone – e dove i baraccati vivono senza acqua e senza elettricità, in condizioni disumane.

Ecco: i mondiali, visti dagli slum sudafricani, non sono affatto un fenomeno sportivo. Migliaia di famiglie sono state sfrattate perché accusate di occupare spazi destinati alla costruzione di nuovi stadi o alla ristrutturazione di quelli vecchi. Un popolo di poveri ambulanti, ragazzi di strada, baraccati sono stati spostati con la forza nei ‘transit camp’, veri campi di reclusione dalle condizioni di vita pessime. Un esercito di invisibili, tenuti alla larga dagli stessi stadi per non ‘sporcare’ i racconti ufficiali di un paese su cui stanno per accendersi le luci dei riflettori di tutto il mondo. È lo stesso Sudafrica che ha vinto l’apartheid, quello di cui parla Filippo, la ‘nazione arcobaleno’ come è stata definita per la sua eterogeneità etnica: ora, è “solo lo Stato più ineguale del mondo”, a causa delle scelte economiche del partito-stato”.

Ma “i senza voce, in realtà, una voce ce l’hanno”, spiega Mondini, “e l’esperienza africana ce lo dimostra: sono un soggetto pensante a differenza di quanto avviene in Italia” ed è la ragione per cui è nato Abahlali. Per smettere di delegare la rappresentanza di alcuni diritti fondamentali, come quello alla salute, al lavoro, ai servizi essenziali. Per scendere in campo e riprendersi la politica, non quella dei potenti, ma quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita. Come spiega un membro del movimento si tratta di “una politica fatta in casa, in modo che ognuno, ogni vecchia signora, ogni giovane, ogni padre di famiglia, riesca a capire. Certo chi non abita nelle baracche può venire e collaborare con noi… ma come servo e non come padrone”. In una frase: l’autogoverno dei poveri.

“Il rischio che corriamo in Italia”, conclude Filippo, “è che la così detta società civile non crei una politica realmente emancipatoria, di cambiamento, ma si limiti a ripiegare su semplici aggiustamenti”. In buona sostanza è quello che Abahlali ha osato dire al ceto politico che lo governa: “Talk with us and not about us!”. Qui, in Italia, dove a settimane alterne “gli operai, per protesta, vanno sui tetti e lottano per il proprio posto di lavoro”, a queste rivendicazioni (“giustissime”), secondo il missionario comboniano, manca un requisito fondamentale per fare di “una rivolta, un evento”: l’universalità.

E la rivolta di Castel Volturno? E quella degli ‘schiavi’ di Rosarno? In entrambi i casi, sono stati “gli immigrati a lottare contro un sistema di sfruttamento che li vessava”. Ma noi “soffochiamo la rivolta, non riusciamo ad ascoltarla”. Perché ci fa paura e non la riconosciamo. Noi, cittadini di una democrazia che funziona perfettamente. Dicono.

(20 maggio 2010)

martedì, maggio 18, 2010

FMGsystems Omnia card

Un canale di ricerca dedicato agli annunci adSense.

sabato, maggio 08, 2010

ALCUNI BAMBINI
Sono perseguitati
(coi soldi pubblici)
perché esistono


di Giacomo Papi (settimanale della Repubblica D)

Amiamo i bambini. Glorifichiamo l’infanzia. E’ una delle poche cose per cui siamo orgogliosi del nostro tempo. Ma è un orgoglio che placa e ci acceca, facendoci distogliere gli occhi. Ciao come stai? Bene! Quanti anni hai? Dieci. Ti piace la scuola? Sì, però mi piace di più la maestra, i compagni, scrivere e matematica. Da grande voglio fare la maestra. Sai leggere? Anche in corsivo. Ma quando sono andata a scuola non sapevo niente di italiano, adesso ho anche amici italiani, delle volte vado a casa loro a giocare. Della Romania non mi ricordo tanto. Sei contenta di essere in Italia? Sì, perché mi date la scuola. Ti piace la TV? Sì, però non ce l’ho. Se avevo una casa guardavo, però non ho.
La baracca di questa bambina è stata resa al suolo dalla polizia all’alba del 19 dicembre 2009, vigilia della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia. Da allora ha dormito in dodici posto diversi, ma ogni volta è stata sgomberata. Oggi vive in una fabbrica abbandonata senza muri, senza soffitto, il pavimento pieno di erbacce e vetri rotti. Nel campo dove viveva, intorno alle ruspe, scorazzavano decine di ratti quasi domestici, ormai abituati all’uomo perché la nettezza urbana per non riconoscere gli abitanti, non è mai arrivata. Per un po’ non ha potuto andare a scuola, poi – grazie alla famiglia, ai volontari della Comunità di Sant’Egidio (santegidio.rubattino@hmail.com) e alle maestre – è tornata. A Milano città i minori in campi abusivi sono circa 300.
In quante scuole sei stata negli ultimi mesi? Due. Perché? Perché hanno sgomberato. Adesso dove dormi? In una tenda che ci ha regalato la maestra. Com’è? E’ grande? E’ verde. Un pochino piccola e un pochino grande. Hai dei giocattoli dentro? No. Mi spieghi com’è uno sgombero? Arriva la polizia nella notte o nella mattina presto, prendono le baracche e ci distruggono le cose, e poi non ci abbiamo dove dormire. Per questo di notte ho sempre paura. Mi hanno portato via anche la mia maglietta della Carica dei 101. Sono gentili i poliziotti? No, lo dicono male che noi andiamo via, urlano le parolacce e hanno i cani che abbaiano e mi fanno paura. Tu sai perché succede questo? Perché non vogliono lasciare questi romeni a vivere qua. Mi racconti una cosa bella? La vacanza in montagna con i bambini stranieri e italiani: Abbiamo giocato e fatto i compiti. Siamo andati a trovare gli anziani. Potevo fare la doccia tutti i giorni, avevo il mio letto e non mi portavano via le mie cose. Abbiamo anche cantato: “Alla scuola della pace puoi ballare e puoi cantare. Vuum! Puoi venire se vuoi”. Hai avuto molto freddo questo inverno? Molto, è male questa vita.
Era il 1937, Nathaniel Simmons, uno degli ideologi del Ku Klux Klan, scriveva: “Niente è più pericoloso che fare male a un bambino. Perché quel male sarà rilasciato, moltiplicato, ogni giorno della sua vita. Il loro male di oggi è il nostro male futuro. Per stare tranquilli, l’unica è ucciderli”
Oggi, a Milano, capitale morale d’Italia (ma altrove è lo stesso), ci sono bambini che vengono perseguitati perché esistono. Legalmente e con soldi pubblici, ed è ancora più grave. Dal 1 gennaio 2010 a Milano sono avvenuti 68 sgomberi, con punte di quattro al giorno. Alle associazioni che chiedevano di fermarsi almeno in inverno, il sindaco Letizia Moratti ha risposto: “La legalità non conosce stagioni”. Qualche tempo dopo un suo consigliere è stato arrestato per corruzione. Il 13 marzo un altro bambino, Emil, è morto bruciato nell’incendio della sua baracca. Il giorno dopo avrebbe compiuto 13 anni. Per fortuna è arrivata la primavera.

venerdì, maggio 07, 2010

Facebook: di male in peggio

Mauro Vecchio in un articolo dal titolo: Facebook, utenti contro la nuova privacy denuncia il malcontento degli utenti di facebook a fronte di modifiche imminenti annunciate.Gli utenti della Rete, si legge, vorrebbero multe severe per siti come Facebook, decisamente più alte del tetto dei 2.500 dollari proposto dal questionario della ricerca condotta tra le Università di Berkeley e Pennsylvania
Abbiamo evidenziato i passaggi piu' significativi dell'articolo:

Alcune ricerche mostrano come gli iscritti al sito siano largamente scontenti delle modifiche annunciate. Vorrebbero multe severe per le società online più negligenti nella tutela dei dati personali
Roma - Si tratterebbe di risultati significativi, come ad inviare agli alti vertici di Facebook un messaggio chiaro: la stragrande maggioranza degli iscritti al social network in blu non è affatto soddisfatta del suo modo attuale di affrontare la delicata questione privacy.

A descrivere un generalizzato malcontento una recente indagine pubblicata da Sophos, azienda specializzata in sicurezza informatica. Ben il 95 per cento degli utenti di Facebook è convinto che le modifiche alle impostazioni sulla privacy di prossima implementazione siano da considerare in maniera del tutto negativa.

L'analisi - condotta da Sophos a partire da un campione di circa 700 tra lettori del suo sito e fan della relativa pagina Facebook - ha inoltre rivelato che soltanto il 2 per cento degli intervistati ha dimostrato buone inclinazioni verso le prossime privacy policy del social network in blu. Mentre un 3 per cento ha sottolineato come queste stesse non siano del tutto chiare.
Al centro delle critiche, il nuovo giro di privacy annunciato da Facebook alla fine dello scorso mese: i dati personali degli iscritti al sito in blu verranno automaticamente indirizzati verso applicazioni terze pre-approvate. A meno che gli stessi utenti non vadano a disattivare la particolare opzione in maniera manuale. A quanto sembra, queste nuove opzioni verranno installate di default su ogni profilo attivo su Facebook.

"Molti utenti di Facebook non sanno nemmeno bene come impostare le proprie opzioni sulla privacy in maniera sicura - ha spiegato Graham Cluley, senior technology consultant di Sophos - E soprattutto non dovrebbero ritrovarsi a disattivare un'impostazione del genere, ma nel caso ad attivarla, dopo aver fatto una scelta consapevole".

Ma a giudicare dalle percentuali di Sophos, la stragrande maggioranza degli iscritti al social network in blu è ben consapevole dei rischi per la propria privacy, giudicando non certo ottimamente l'operato del sito. Secondo un'altra indagine, condotta da un gruppo di ricercatori universitari statunitensi, il popolo social sarebbe nettamente a favore di punizioni esemplari per tutte le aziende negligenti nella tutela dei dati personali.

In sostanza, gli utenti della Rete vorrebbero multe severe per siti come Facebook, decisamente più alte del tetto dei 2.500 dollari proposto dal questionario della ricerca condotta tra le Università di Berkeley e Pennsylvania. E chissà come potrebbero reagire davanti ad alcuni rumor - fatti circolare da esperti di marketing - che vorrebbero il sito di Mark Zuckerberg particolarmente attivo nel campo della pubblicità mirata.

Tra le nuove idee del sito in blu - da presentare a breve nel corso di una conferenza a San Francisco - ci sarebbe quella di implementare dei particolari pulsanti legati allo sharing con alcuni siti web. Agli utenti bastera cliccarci sopra per condividere un link con i propri amici via Facebook Connect.

Una volta condiviso il link, il social network lo considererebbe una sorta di prova di un certo interesse dell'utente. Provvedendo quindi a confezionare abiti pubblicitari su misura degli iscritti, che si ritroverebbero a visualizzare ads personalizzate sul proprio profilo. In pratica, Facebook inizierebbe a tracciare le attività di navigazione dei suoi iscritti, anche se un suo portavoce ha smentito ufficialmente il fatto. Che probabilmente non piacerà ai già sufficientemente adirati utenti.

Webmasters: Come impedire che Facebook abbia accesso a gmail

Webmasters: Come impedire che Facebook abbia accesso a gmail

lunedì, maggio 03, 2010

GLI AMORI FOLLI di Alain Resnais (Francia, Italia 2009)

di Giona A. Nazzaro (MicroMega)

Fenomeno del tutto sconosciuto al cinema italiano, i film migliori degli ultimi anni sono tutti realizzati da cineasti che secondo l’anagrafe sarebbero “anziani”. Basti pensare al caso eclatante del maestro Manoel de Oliveira (che sulla Croisette presenterà il suo nuovo lavoro) oppure al quasi novantenne Alain Resnais che con Gli amori folli firma un film di una libertà sconcertante che ridicolizza gli sforzi vanagloriosi dei presuntuosi rinnovatori del cinema di genere nostrani, dei bessoniti transalpini e dei rampanti digitali d’oltreoceano che non hanno capito Avatar e Zemeckis.

Resnais, come John Ford prima di lui, e giganti come Paulo Rocha, trova una libertà sconcertante proprio di fronte al mutare irrefrenabile del panorama cinematografico. Anzi sembrando lui stesso l’epifania di questa mutazione in atto. Misteriosissima e sconcertante questa gioventù gagliarda della vecchiaia, per un cinema italiano che persino nelle sue manifestazioni più alte (Fellini, Visconti, Comencini, Risi) ha sofferto l’ingiuria del tempo e del declinare della potenza produttiva di un’industria votatasi ad altro (con la sola clamorosa, perenne eccezione del Rossellini televisivo che comunque giovane lo era... “ontologicamente”).

Le erbe folli del titolo originale francese sono quei fili verdi che a volte si notano tra le pieghe dell’asfalto. Una resistenza verde, fragile ma tenacissima, che si fa largo fra il cemento discontinuando il reale e le modalità di apparizione delle cose. Manifestazione di una vita altra che emerge in condizioni avverse proprio lì dove non ci si aspetterebbe altro che la ripetizione dell’identico.

Motivo per cui il titolo italiano dell’ultimo film di Alain Resnais rischia di essere fuorviante rispetto al carattere serenamente alieno dell’originale, nel quale la follia si riferisce al carattere imperscrutabile dell’opacità di un ambiente e di un insieme di relazioni, sentimentali e non, che si offrono allo sguardo come un oggetto concreto: seducente nella sua luminosità materica eppure strenuamente refrattario al consumo distratto.

Fra i talenti emersi nell’alveo della nouvelle vague, Resnais è senz’altro il temperamento più sperimentale di un anti-gruppo che non ha certo mai lesinato in inventiva e sfide alla forma del tradizionale racconto cinematografico. Cantore della fisica dello smontaggio narrativo, è riuscito a rendere fluide e densamente cinematografiche anche le articolazioni più complesse del pensiero del nouveau roman grazie a una sensibilità nella quale la vocazione insurrezionale del modernismo più schietto e motivato s’intreccia indissolubilmente con le ragioni di una cinefilia mai autoreferenziale e sempre generosamente esposta al complesso dei fenomeni culturali.

Con una carriera alle spalle fatta di titoli che sono entrati tutti nella storia del cinema, e continuando film dopo film a lavorare con ineffabile acume matematico a un pensiero della messinscena libera dalle convenzioni del racconto tradizionale, Resnais giunge con Gli amori folli a un cinema di una limpidezza sconcertante per potenza figurativa e serena intelligenza formale.

Lo smarrimento di un portafoglio è l’occasione che permette a Sabine Azéma e André Dussolier, fedelissimi del cineasta che lavora con i suoi attori con l’ostinatissima tenacia di un teatrante che non si stanca mai di manipolare gli stessi materiali per ottenerne suoni sempre nuovi, di intrecciare una sensuale danza che superficialmente sembra come omaggiare alcuni luoghi topici del cinema francese della modernità (Pickpocket di Robert Bresson, gli aerei movimenti cromatici del cinema di Jacques Demy); in realtà, si rivela poco alla volta come un paradossale musical noir cubista scritto da Hans Werner Henze, musicista che tra l’altro ha in passato lavorato con Resnais.

I due protagonisti si inseguono e si cercano lungo gli orli di un cinema di parola che nel momento stesso in cui si offre alla percezione si sgretola e muta forma. Resnais infatti, dopo gli esperimenti sulle variazioni minimali di Smoking/No Smoking e prima ancora con il melodramma da camera e il musical decostruito sembra avere ritrovato il gusto per i movimenti più spericolati della macchina da presa.

Con una fluidità impercettibile, Resnais si muove tra gli strati del reale come se sezionasse il principio d’individuazione del reale. Campo metastabile di futuri equiprobabili, Gli amori folli è un’esplosione di vitalità creativa immersa in un bagno di luci morbide che a tratti fanno pensare addirittura al Coppola minnelliano di Un sogno lungo un giorno.

Lungi dal giocare con il proprio (e il nostro) piacere del cinema, Alain Resnais mette in scena epifanie perturbanti, evidenziando le fratture e le crepe nel tessuto del reale come se in realtà non stesse facendo altro che aggiornare le ronde ophülsiane del desiderio.

Il mondo si conferma indicibile. L’immagine è sempre l’immagine di altro. Lo sguardo, come il desiderio, non può fare a meno di distrarsi, di deviare dal tracciato del visibile. Cinema perturbante, ironicamente inquietante, Gli amori folli conferma ancora una volta il primato dell’intelligenza e di un’idea di cinema “impura” (secondo l’indicazione baziniana) servito al meglio dallo stato di grazia assoluto del gesto di Alain Resnais.

E per convincersene basta ripercorrere con gli occhi l’ultima traiettoria della macchina da presa che chiude Gli amori folli. Da dove parte? Come si muove attraverso lo spazio? Dove arriva? In un film tutto dominato da aporie, da porte che non si chiudono e giunture narrative scardinate, Alain Resnais si concede anche la libertà di un volo a planare che invece di chiudere il film riapre ancora una volta – all’ennesima potenza – tutto il suo cinema. Ammirevole.

(30 aprile 2010)