GLI AMORI FOLLI di Alain Resnais (Francia, Italia 2009)
di Giona A. Nazzaro (MicroMega)
Fenomeno del tutto sconosciuto al cinema italiano, i film migliori degli ultimi anni sono tutti realizzati da cineasti che secondo l’anagrafe sarebbero “anziani”. Basti pensare al caso eclatante del maestro Manoel de Oliveira (che sulla Croisette presenterà il suo nuovo lavoro) oppure al quasi novantenne Alain Resnais che con Gli amori folli firma un film di una libertà sconcertante che ridicolizza gli sforzi vanagloriosi dei presuntuosi rinnovatori del cinema di genere nostrani, dei bessoniti transalpini e dei rampanti digitali d’oltreoceano che non hanno capito Avatar e Zemeckis.
Resnais, come John Ford prima di lui, e giganti come Paulo Rocha, trova una libertà sconcertante proprio di fronte al mutare irrefrenabile del panorama cinematografico. Anzi sembrando lui stesso l’epifania di questa mutazione in atto. Misteriosissima e sconcertante questa gioventù gagliarda della vecchiaia, per un cinema italiano che persino nelle sue manifestazioni più alte (Fellini, Visconti, Comencini, Risi) ha sofferto l’ingiuria del tempo e del declinare della potenza produttiva di un’industria votatasi ad altro (con la sola clamorosa, perenne eccezione del Rossellini televisivo che comunque giovane lo era... “ontologicamente”).
Le erbe folli del titolo originale francese sono quei fili verdi che a volte si notano tra le pieghe dell’asfalto. Una resistenza verde, fragile ma tenacissima, che si fa largo fra il cemento discontinuando il reale e le modalità di apparizione delle cose. Manifestazione di una vita altra che emerge in condizioni avverse proprio lì dove non ci si aspetterebbe altro che la ripetizione dell’identico.
Motivo per cui il titolo italiano dell’ultimo film di Alain Resnais rischia di essere fuorviante rispetto al carattere serenamente alieno dell’originale, nel quale la follia si riferisce al carattere imperscrutabile dell’opacità di un ambiente e di un insieme di relazioni, sentimentali e non, che si offrono allo sguardo come un oggetto concreto: seducente nella sua luminosità materica eppure strenuamente refrattario al consumo distratto.
Fra i talenti emersi nell’alveo della nouvelle vague, Resnais è senz’altro il temperamento più sperimentale di un anti-gruppo che non ha certo mai lesinato in inventiva e sfide alla forma del tradizionale racconto cinematografico. Cantore della fisica dello smontaggio narrativo, è riuscito a rendere fluide e densamente cinematografiche anche le articolazioni più complesse del pensiero del nouveau roman grazie a una sensibilità nella quale la vocazione insurrezionale del modernismo più schietto e motivato s’intreccia indissolubilmente con le ragioni di una cinefilia mai autoreferenziale e sempre generosamente esposta al complesso dei fenomeni culturali.
Con una carriera alle spalle fatta di titoli che sono entrati tutti nella storia del cinema, e continuando film dopo film a lavorare con ineffabile acume matematico a un pensiero della messinscena libera dalle convenzioni del racconto tradizionale, Resnais giunge con Gli amori folli a un cinema di una limpidezza sconcertante per potenza figurativa e serena intelligenza formale.
Lo smarrimento di un portafoglio è l’occasione che permette a Sabine Azéma e André Dussolier, fedelissimi del cineasta che lavora con i suoi attori con l’ostinatissima tenacia di un teatrante che non si stanca mai di manipolare gli stessi materiali per ottenerne suoni sempre nuovi, di intrecciare una sensuale danza che superficialmente sembra come omaggiare alcuni luoghi topici del cinema francese della modernità (Pickpocket di Robert Bresson, gli aerei movimenti cromatici del cinema di Jacques Demy); in realtà, si rivela poco alla volta come un paradossale musical noir cubista scritto da Hans Werner Henze, musicista che tra l’altro ha in passato lavorato con Resnais.
I due protagonisti si inseguono e si cercano lungo gli orli di un cinema di parola che nel momento stesso in cui si offre alla percezione si sgretola e muta forma. Resnais infatti, dopo gli esperimenti sulle variazioni minimali di Smoking/No Smoking e prima ancora con il melodramma da camera e il musical decostruito sembra avere ritrovato il gusto per i movimenti più spericolati della macchina da presa.
Con una fluidità impercettibile, Resnais si muove tra gli strati del reale come se sezionasse il principio d’individuazione del reale. Campo metastabile di futuri equiprobabili, Gli amori folli è un’esplosione di vitalità creativa immersa in un bagno di luci morbide che a tratti fanno pensare addirittura al Coppola minnelliano di Un sogno lungo un giorno.
Lungi dal giocare con il proprio (e il nostro) piacere del cinema, Alain Resnais mette in scena epifanie perturbanti, evidenziando le fratture e le crepe nel tessuto del reale come se in realtà non stesse facendo altro che aggiornare le ronde ophülsiane del desiderio.
Il mondo si conferma indicibile. L’immagine è sempre l’immagine di altro. Lo sguardo, come il desiderio, non può fare a meno di distrarsi, di deviare dal tracciato del visibile. Cinema perturbante, ironicamente inquietante, Gli amori folli conferma ancora una volta il primato dell’intelligenza e di un’idea di cinema “impura” (secondo l’indicazione baziniana) servito al meglio dallo stato di grazia assoluto del gesto di Alain Resnais.
E per convincersene basta ripercorrere con gli occhi l’ultima traiettoria della macchina da presa che chiude Gli amori folli. Da dove parte? Come si muove attraverso lo spazio? Dove arriva? In un film tutto dominato da aporie, da porte che non si chiudono e giunture narrative scardinate, Alain Resnais si concede anche la libertà di un volo a planare che invece di chiudere il film riapre ancora una volta – all’ennesima potenza – tutto il suo cinema. Ammirevole.
(30 aprile 2010)
1 commento:
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