AUTOBIOGRAFIA DI UN INGANNO. LO SCOPO? DISFARE GLI ITALIANI
(Marco Revelli dall'inserto "Il Venerdì" di Repubblica
"Disfare gli italiani". Questa sembra essere diventata l'ultima frontiera della Lega. Non è ancora finita del tutto l'impresa di farli, gli italiani, dopo aver "fatto l'Italia", che già si lavora per smontare quel fragile embrione con un progetto ambizioso, che sembra andare al di là, e al di sotto, della semplice superficie della politica. E puntare al bersaglio grosso, al Dna della Nazione, per mutarne il codice genetico. E riscriverne l'autobiografia. A questo sembra orientato il disordinato lavorio di figure minori, apparentemente secondarie, macchiettistiche, caricaturali: sindaci brianzoli, assessori lombardo-veneti, tribuni di periferia, parroci sanfedisti, cronisti di gazzette locali, intrattenitori da balera, adoratori del "sacro Po" e di ampolle celtiche. A questo - difficile quanto consapevole - progetto, risponde l'aberrazione di Adro: la marchiatura del più civile degli spazi, della scuola, con i simboli ostentati della segregazione del luogo e di fede politica. E più in generale la moltiplicazione di "segni" di appartenenza, e di esclusività, su tutto ciò che dovrebbe essere, al contrario, pubblico, comune, aperto e condiviso (ponti, piazze, vie.....), quasi a marcare, appunto, il territorio nel più elementare dei gesti di appropriazione. A svellerlo dalla sua storia, dalla vicenda collettiva che l'aveva fatto quel che esso era, per ridefinirne l'identità.
Solitamente si liquida tutto ciò come folclore. Manifestazione di pessimo gusto, fastidiosa, persino oltraggiosa ma tutto sommato innocua, come il baso livello culturale, la rozzezza e la marginalità dei suoi protagonisti. Ma temo sia un errore letale. Intanto perché non è affatto vero che ignoranza e rozzezza siano in qualche modo "innocenti" né tantomeno innocue: hanno al contrario un terribile potenziale di contagio, nei punti di caduta della storia, e una distruttività pari alla semplicità elementare dei loro linguaggi (gli anni Trenta insegnano). E poi perché, dietro i volti impenetrabili di questi nuovi barbari, si può intravedere la minacciosa grandezza di un'dea mortale: la voglia di metter le mani sulla stessa base "antropologica" del vivere associato. Di generare un nuovo tipo "tipo umano", per così dire, misurato sul nuovo habitat che si è ridisegnato a colpi di soli padani. Sul "territorio" appropriato a un'altra umanità. diversa da quella precedente. Più dura, certamente. Più gelosa della propria "coscienza di luogo". Votata ad altri dei, meno comprensivi ed ecumenici dei vecchi. "Rieducata" persino nei suoi atti più nobili, le funzioni di "cura", le pratiche di volontariato, ripiegate sull'egoismo di sangue. L'homo padanus: emergente, per seccessione di comportamenti prima che politica, dall'incompiuto "italiano".
Se il nostro quadro istituzionale fosse stabile, si potrebbe forse guardare a tutto ciò con distacco. Ma non è così. E' come se i piccoli sindaci padani avvertissero gli scricchiolii del grande edificio nazionale. Come se Bossi e i suoi gauleiter padani intuissero una nuova "morte della patria", di un altro, strisciante 8 settembre.
martedì, ottobre 12, 2010
Il ritorno del Ventennio
Sembrava toccato un fondo umiliante con la scuola di Adro, edificio dello Stato vandalizzato dalla Lega. E con il voto di fiducia ottenuto da Berlusconi per forzare a un atto di sottomissione chi ha già detto ad alta voce e in pubblico ciò che pensa di lui.
Ma nelle stesse ore due fatti ci hanno ricordato che, se il presente è squallido, il peggior passato italiano si sta facendo largo tra le rovine di Berlusconi e non ha più vergogna di ciò che è stato.
Fenomenologia dei tempi correnti
Ecco il primo fatto. È mercoledì 29 settembre, siamo a Milano, siamo in via Bagutta, siamo di fronte a una manifestazione di studenti, quasi tutti di scuola media e alcuni universitari che per comodità e per giustificare alcuni eventi, verranno descritti come “centri sociali”. La manifestazione è piccola ma la ragione che porta i ragazzi in strada, di fronte alla sede dell’Unione Ufficiali in congedo, è grande. Il ministro della Difesa La Russa, il sindaco di Milano Moratti e il ministro dell’Istruzione Gelmini hanno deciso che d’ora in poi mille ragazzi delle scuole milanesi parteciperanno ogni anno a un corso che si chiama “allenati per la vita”. Vuol dire armi, esercitazioni, sfide fra pattuglie, esercizio alla “frequentazione di luoghi ostili”. Vuol dire cultura di guerra a scuola. L’affermazione non è eccessiva perché un simile training non è affatto un modo di accostarsi alla vita dei soldati veri. Facile provarlo.
È evidente l’equivoco: gli metti l’arma in mano, lo fai agire come una persona armata, creando una presunzione di razza a parte, di razza superiore. Ed è evidente il pericolo: Impari i gesti ma non il senso, come insegnare a qualcuno ad usare il bisturi, col pretesto che non si sa mai, ma senza la scuola di Medicina.
Ho detto che un simile folle progetto non si ritrova mai nelle scuole del mondo democratico. Ma occorre aggiungere che era tipico del fascismo, che esercitava i ragazzi anche con armi finte (che diventavano vere dopo i 15 anni) su scala di massa.
Dunque, senza alcun dubbio, l’iniziativa è fascista, nel senso classico e antico della parola. È il fascismo di Mussolini che voleva indurire gli italiani “molli e pacifisti”.
Tutto ciò per spiegare l’evento di Milano. Questo giornale ne ha parlato accuratamente il primo ottobre. A me preme far notare qualcosa di strano e di pericoloso nella sequenza dei fatti.
Primo, non era una grande manifestazione, i partecipanti erano pochi (pensando all’irresponsabilità di adulti come La Russa, Moratti, Gelmini, titolari del potere, viene voglia di dire “peccato”). Saranno stati rumorosi ma certo non pericolosi. Non risulta che vi siano stati contatti fisici di alcun genere.
Il modello ‘Genova’ per le vie di Milano
Secondo, i ragazzi hanno avuto l’impressione che vi fosse, oltre alle normali forze dell’ordine (carabinieri) un gruppo di militari diverso e speciale. Non diversa la divisa, ma il comportamento. O (direbbero gli specialisti) la missione.
Qui occorre sentire la voce di Leon Blanchaert, anni 23, corso di laurea in Scienze politiche, Università Statale, uno dei pochi adulti nella dimostrazione contro la cultura della guerra degli studenti di scuola media il 29 settembre a Milano.
“Tutto era finito in modo pacifico ma all’improvviso due di noi, io e una ragazza, evidentemente identificati come i capi della dimostrazione, siamo stati bloccati da un gruppo di militari che ci seguiva. Alla ragazza hanno storto il braccio come per romperlo. Io sono stato tenuto fermo mentre uno di loro mi picchiava sulla faccia fino a staccarmi il setto nasale. Sono in ospedale e nei prossimi giorni sarò operato. L’evento è stato terrorizzante per i ragazzi e le ragazze più piccoli (alcuni di 13 e 14 anni). Anche a nome loro chiediamo un intervento parlamentare. Vogliamo sapere chi ha ordinato una simile azione, lungo quale catena di comando, visto che il ministro della Difesa è il promotore dell’iniziativa che noi chiamiamo “la guerra a scuola” e, allo stesso tempo, il comandante in capo di coloro che ci hanno aggredito come per darci una lezione esemplare, benché nessuna misura di ordine pubblico giustificasse una simile spedizione punitiva”.
La mattina del primo ottobre mi sono assunto il compito di intervenire in aula. Era in corso la discussione generale sull’aumento ed estensione dei pedaggi sulle autostrade. Ma proprio in quel momento in Senato era accaduto qualcosa di insolito e grave. L’evento ha indotto la presidente di turno Rosy Bindi a permettere al deputato Fiano (poi a Nirenstein e poi a me) di intervenire. Ecco che cosa era accaduto. Il Senatore Giuseppe Ciarrapico, che si è sempre vantato di essere stato e di essere tuttora fascista, ha detto: “Vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini. Ma mi domando: i finiani hanno già ordinato la kippah? Perché di questo si tratta. Chi ha tradito una volta tradisce sempre”.
La kippah è il tradizionale copricapo degli ebrei, avvertono le agenzie che hanno diffuso la notizia.
Intervenendo con forza e passione sul senso che hanno quelle parole nell’Italia che stiamo vivendo, Fiano ha aperto la strada che mi ha consentito di raccontare subito all’Assemblea il pestaggio organizzato a Milano contro ragazzi estranei ad ogni azione o organizzazione pericolosa, colpevoli di essersi opposti alla “scuola di guerra”, da parte di un gruppo che forse è un’unità speciale con una missione speciale, qualcosa di separato dalle normali forze dell’ordine. Insomma, assieme alle parole di Ciarrapico si intravede l’altra faccia del fascismo, che si sente libero e anzi voglioso di esserci e di farsi notare, si sente autorizzato di venire sfacciatamente allo scoperto.
Niente scorre, tutto torna
Con il comportamento del sindaco leghista di Tradate che vieta il pagamento del premio di natalità se i genitori del nuovo nato non sono tutti e due italiani. E spiega senza ritegno che la sua iniziativa ha lo scopo di proteggere “ la nostra cultura”, torna, nella sua tipica forma odiosa, la difesa della razza. Quando il docente del conservatorio di Milano Johanne Maria Pini non esita a raccomandare l’eliminazione dei disabili, il nazismo torna ad insediarsi in Italia senza esitazione e senza pudore.
Ecco la nuova Italia di cui ci ha parlato a lungo Berlusconi, prima di addormentarsi in Senato, placato e confortato da se stesso dopo aver annunciato che tutto va bene, dopo essere stato il protagonista di un “fuori onda” in cui ripete di voler dare la caccia ai giudici e racconta le sue umilianti barzellette sugli ebrei.
da il Fatto Quotidiano (Furio Colombo)
Sembrava toccato un fondo umiliante con la scuola di Adro, edificio dello Stato vandalizzato dalla Lega. E con il voto di fiducia ottenuto da Berlusconi per forzare a un atto di sottomissione chi ha già detto ad alta voce e in pubblico ciò che pensa di lui.
Ma nelle stesse ore due fatti ci hanno ricordato che, se il presente è squallido, il peggior passato italiano si sta facendo largo tra le rovine di Berlusconi e non ha più vergogna di ciò che è stato.
Fenomenologia dei tempi correnti
Ecco il primo fatto. È mercoledì 29 settembre, siamo a Milano, siamo in via Bagutta, siamo di fronte a una manifestazione di studenti, quasi tutti di scuola media e alcuni universitari che per comodità e per giustificare alcuni eventi, verranno descritti come “centri sociali”. La manifestazione è piccola ma la ragione che porta i ragazzi in strada, di fronte alla sede dell’Unione Ufficiali in congedo, è grande. Il ministro della Difesa La Russa, il sindaco di Milano Moratti e il ministro dell’Istruzione Gelmini hanno deciso che d’ora in poi mille ragazzi delle scuole milanesi parteciperanno ogni anno a un corso che si chiama “allenati per la vita”. Vuol dire armi, esercitazioni, sfide fra pattuglie, esercizio alla “frequentazione di luoghi ostili”. Vuol dire cultura di guerra a scuola. L’affermazione non è eccessiva perché un simile training non è affatto un modo di accostarsi alla vita dei soldati veri. Facile provarlo.
È evidente l’equivoco: gli metti l’arma in mano, lo fai agire come una persona armata, creando una presunzione di razza a parte, di razza superiore. Ed è evidente il pericolo: Impari i gesti ma non il senso, come insegnare a qualcuno ad usare il bisturi, col pretesto che non si sa mai, ma senza la scuola di Medicina.
Ho detto che un simile folle progetto non si ritrova mai nelle scuole del mondo democratico. Ma occorre aggiungere che era tipico del fascismo, che esercitava i ragazzi anche con armi finte (che diventavano vere dopo i 15 anni) su scala di massa.
Dunque, senza alcun dubbio, l’iniziativa è fascista, nel senso classico e antico della parola. È il fascismo di Mussolini che voleva indurire gli italiani “molli e pacifisti”.
Tutto ciò per spiegare l’evento di Milano. Questo giornale ne ha parlato accuratamente il primo ottobre. A me preme far notare qualcosa di strano e di pericoloso nella sequenza dei fatti.
Primo, non era una grande manifestazione, i partecipanti erano pochi (pensando all’irresponsabilità di adulti come La Russa, Moratti, Gelmini, titolari del potere, viene voglia di dire “peccato”). Saranno stati rumorosi ma certo non pericolosi. Non risulta che vi siano stati contatti fisici di alcun genere.
Il modello ‘Genova’ per le vie di Milano
Secondo, i ragazzi hanno avuto l’impressione che vi fosse, oltre alle normali forze dell’ordine (carabinieri) un gruppo di militari diverso e speciale. Non diversa la divisa, ma il comportamento. O (direbbero gli specialisti) la missione.
Qui occorre sentire la voce di Leon Blanchaert, anni 23, corso di laurea in Scienze politiche, Università Statale, uno dei pochi adulti nella dimostrazione contro la cultura della guerra degli studenti di scuola media il 29 settembre a Milano.
“Tutto era finito in modo pacifico ma all’improvviso due di noi, io e una ragazza, evidentemente identificati come i capi della dimostrazione, siamo stati bloccati da un gruppo di militari che ci seguiva. Alla ragazza hanno storto il braccio come per romperlo. Io sono stato tenuto fermo mentre uno di loro mi picchiava sulla faccia fino a staccarmi il setto nasale. Sono in ospedale e nei prossimi giorni sarò operato. L’evento è stato terrorizzante per i ragazzi e le ragazze più piccoli (alcuni di 13 e 14 anni). Anche a nome loro chiediamo un intervento parlamentare. Vogliamo sapere chi ha ordinato una simile azione, lungo quale catena di comando, visto che il ministro della Difesa è il promotore dell’iniziativa che noi chiamiamo “la guerra a scuola” e, allo stesso tempo, il comandante in capo di coloro che ci hanno aggredito come per darci una lezione esemplare, benché nessuna misura di ordine pubblico giustificasse una simile spedizione punitiva”.
La mattina del primo ottobre mi sono assunto il compito di intervenire in aula. Era in corso la discussione generale sull’aumento ed estensione dei pedaggi sulle autostrade. Ma proprio in quel momento in Senato era accaduto qualcosa di insolito e grave. L’evento ha indotto la presidente di turno Rosy Bindi a permettere al deputato Fiano (poi a Nirenstein e poi a me) di intervenire. Ecco che cosa era accaduto. Il Senatore Giuseppe Ciarrapico, che si è sempre vantato di essere stato e di essere tuttora fascista, ha detto: “Vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini. Ma mi domando: i finiani hanno già ordinato la kippah? Perché di questo si tratta. Chi ha tradito una volta tradisce sempre”.
La kippah è il tradizionale copricapo degli ebrei, avvertono le agenzie che hanno diffuso la notizia.
Intervenendo con forza e passione sul senso che hanno quelle parole nell’Italia che stiamo vivendo, Fiano ha aperto la strada che mi ha consentito di raccontare subito all’Assemblea il pestaggio organizzato a Milano contro ragazzi estranei ad ogni azione o organizzazione pericolosa, colpevoli di essersi opposti alla “scuola di guerra”, da parte di un gruppo che forse è un’unità speciale con una missione speciale, qualcosa di separato dalle normali forze dell’ordine. Insomma, assieme alle parole di Ciarrapico si intravede l’altra faccia del fascismo, che si sente libero e anzi voglioso di esserci e di farsi notare, si sente autorizzato di venire sfacciatamente allo scoperto.
Niente scorre, tutto torna
Con il comportamento del sindaco leghista di Tradate che vieta il pagamento del premio di natalità se i genitori del nuovo nato non sono tutti e due italiani. E spiega senza ritegno che la sua iniziativa ha lo scopo di proteggere “ la nostra cultura”, torna, nella sua tipica forma odiosa, la difesa della razza. Quando il docente del conservatorio di Milano Johanne Maria Pini non esita a raccomandare l’eliminazione dei disabili, il nazismo torna ad insediarsi in Italia senza esitazione e senza pudore.
Ecco la nuova Italia di cui ci ha parlato a lungo Berlusconi, prima di addormentarsi in Senato, placato e confortato da se stesso dopo aver annunciato che tutto va bene, dopo essere stato il protagonista di un “fuori onda” in cui ripete di voler dare la caccia ai giudici e racconta le sue umilianti barzellette sugli ebrei.
da il Fatto Quotidiano (Furio Colombo)
martedì, ottobre 05, 2010
sabato, settembre 04, 2010
mercoledì, agosto 25, 2010
L’Europa iniqua e i rom
di Moni Ovadia
I rom non trovano pace in questa iniqua terra d'Europa che non li vuole, che li tratta come un problema, come un ingombro di cui sbarazzarsi allontanandoli alla vista del "uomo della strada". I cosiddetti cittadini per bene, quelli che in passato votarono a milioni per partiti razzisti pur di difendere i loro piccoli e risicati privilegi non hanno minimamente fatto propria la tragica lezione che la cultura dell’ intolleranza ha impartito al vecchio continente sulla pelle di chi in un modo o nell'altro era considerato diverso Allora i rom erano in compagnia degli ebrei e di altri indesiderabili, adesso sono soli. La cattiveria con cui vengono trattati lascia indifferente l'opinione pubblica. Il problema è confinato al rifiuto della contiguità. Le persone "normali" non li vogliono vicini. A Milano mille "persone per bene" firmano una petizione contro la giunta di centro-destra che ha dato l'assenso alla costruzione di un insediamento per famiglie rom, grazie ad un finanziamento stanziato dal ministro Maroni, facendo leva sulla guerra fra poveri: senza lavoro milanesi contro zingari. I firmatari della petizione, leghisti duri e puri, chiedono l'intervento di Bossi in nome della tradita identità leghista. Se Bossi non darà loro soddisfazione, possono rivolgersi ad un altro che ce l'ha duro con i poveracci: Sarkozy che essendo un destro cattivista di corta memoria - Sarkozy è di origini ebraico-ungheresi - espelle, e disloca i rom senza risolvere un bel niente. A quante inutili vessazioni dovranno essere sottoposte le popolazioni rom e sinti perché la pavida ed imbelle Europa dia mano ad una legge vincolante per tutti i paesi comunitari che riconosca loro il pieno statuto di cittadini europei con il diritto di risiedere dovunque scelgano di farlo sulla base dello ius soli e nel rispetto delle loro specificità sociali e culturali? Si paghi finalmente questo debito!
21 agosto 2010
di Moni Ovadia
I rom non trovano pace in questa iniqua terra d'Europa che non li vuole, che li tratta come un problema, come un ingombro di cui sbarazzarsi allontanandoli alla vista del "uomo della strada". I cosiddetti cittadini per bene, quelli che in passato votarono a milioni per partiti razzisti pur di difendere i loro piccoli e risicati privilegi non hanno minimamente fatto propria la tragica lezione che la cultura dell’ intolleranza ha impartito al vecchio continente sulla pelle di chi in un modo o nell'altro era considerato diverso Allora i rom erano in compagnia degli ebrei e di altri indesiderabili, adesso sono soli. La cattiveria con cui vengono trattati lascia indifferente l'opinione pubblica. Il problema è confinato al rifiuto della contiguità. Le persone "normali" non li vogliono vicini. A Milano mille "persone per bene" firmano una petizione contro la giunta di centro-destra che ha dato l'assenso alla costruzione di un insediamento per famiglie rom, grazie ad un finanziamento stanziato dal ministro Maroni, facendo leva sulla guerra fra poveri: senza lavoro milanesi contro zingari. I firmatari della petizione, leghisti duri e puri, chiedono l'intervento di Bossi in nome della tradita identità leghista. Se Bossi non darà loro soddisfazione, possono rivolgersi ad un altro che ce l'ha duro con i poveracci: Sarkozy che essendo un destro cattivista di corta memoria - Sarkozy è di origini ebraico-ungheresi - espelle, e disloca i rom senza risolvere un bel niente. A quante inutili vessazioni dovranno essere sottoposte le popolazioni rom e sinti perché la pavida ed imbelle Europa dia mano ad una legge vincolante per tutti i paesi comunitari che riconosca loro il pieno statuto di cittadini europei con il diritto di risiedere dovunque scelgano di farlo sulla base dello ius soli e nel rispetto delle loro specificità sociali e culturali? Si paghi finalmente questo debito!
21 agosto 2010
giovedì, agosto 19, 2010
Tv insieme, Silvio e Muammar sulla stessa lunghezza d’onda
di Ninni Andriolo e Umberto De Giovannangeli (l'Unità)
Una cosa ci tiene a chiarire prioritariamente: nessuno, al di là di una puntualizzazione del finanziere-produttore-amico del Cavaliere, Tarak Ben Ammar, ha provato a smentire quanto da lui scritto nell'articolo-bomba pubblicato sul Guardian il 6 settembre 2009. John Hooper è l'autore dello scoop che ha disvelato le operazioni finanziarie tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi, facendo emergere quello che il reporter britannico ha definito un «colossale conflitto di interessi». «Il fatto è – annota Hooper – che a unire i due leader non è solo il pugno di ferro contro gli immigrati clandestini. A unirli ci sono anche e per molti aspetti, soprattutto gli affari». Affari di famiglia.
È la Libyan connection. Vale la pena riportarla alla memoria, perché questa storia dà spessore e concretezza alle esternazioni sibilline di alcuni parlamentari «finiani», in primis Carmelo Briguglio, sulla «reale natura» delle relazioni tra Berlusconi e Gheddafi (e Vladimir Putin). Il Guardian scrive che nel giugno (2009) «come riportato da una piccola agenzia di stampa italiana, Radiocor», una società libica chiamata Lafitrade ha acquisito il 10 per cento della Quinta Comunication, una compagnia di produzione cinematografica fondata da Tarak Ben Ammar, storico socio di Berlusconi.
Lafitrade è controllata da Lafico, il braccio d'investimenti della famiglia Gheddafi. E l'altro partner di Ben Ammar nella Quinta Comunication è, «con circa il 22 per cento» del capitale scrive il Guardian, una società registrata in Lussemburgo di proprietà della Fininvest, la finanziaria di Berlusconi. Non solo: Quinta Comunication e Mediaset possiedono ciascuna il 25 per cento di una nuova televisione via satellite araba, la Nessma Tv, che opera anche in Libia, sulla quale Gheddafi potrebbe esercitare influenza attraverso la quota che ha rilevato nella Quinta Comunication. A Repubblica Ben Ammar puntualizza che Nessma Tv è di proprietà sua, al 25 per cento, di Mediaset per un altro 25, di due partner tunisini per il restante 50. L'ingresso di Gheddafi in Quinta Comunication, spiega, è avvenuto nell'ambito di un aumento di capitale ma solo perché interessato alla produzione di film sul mondo arabo. È bene soffermarsi su questo punto-chiave. E leggere nelle percentuali.
La sintesi è che Nessma Tv, appartiene al presidente del Consiglio italiano che ne detiene il 25% attraverso Mediaset Group, l'azienda di famiglia. Il resto è in mano per il 50% alla Karoui&Karoui World, dei fratelli Karoui, e a Tarek Ben Ammar per il restante 25% attraverso Quinta Communications. Creata nel 2007 dai fratelli Nebil e Ghazi Karoui, Nessma Tv è stata ripresa nel 2008 da Berlusconi e Ben Ammar, con l'obiettivo di farne la prima tv commerciale del Maghreb.
Un anno dopo l'articolo-scoop, il corrispondente del Guardian osserva con l'Unità che «per quanto riguarda i rapporti fra Gheddafi e Berlusconi non è stata fatta chiarezza. Il fatto è che l'opposizione non incalza il presidente del Consiglio su queste questioni. In qualunque altro Paese d'Europa, un premier sarebbe chiamato a resocontare in Parlamento sull'operato del Governo specie di fronte ad accuse di interessi personali...».
«In Inghilterra – ricorda John Hooper – il Primo ministro va due volte alla settimana in Parlamento per un confronto “uno contro uno” con il leader dell'opposizione. Berlusconi, invece, “diserta” il Parlamento ed evita il confronto. Cosa tanto più grave quando emergono sospetti concreti di un conflitto di interessi per ciò che concerne i rapporti tra Berlusconi e Gheddafi, come tra Berlusconi e Putin». Il discorso investe anche i media, pubblici (le Tv) e privati: «Dovrebbero – annota ancora Hooper – fare domande più dure, incalzanti, al premier, ma ciò, salvo rare eccezioni, non avviene...». «Berlusconi è un Primo ministro che sembra avere tra i suoi migliori amici in campo internazionale un ex capo del Kgb, Putin, e il dittatore libico, Gheddafi. Si dice che le persone si riconoscono dalla compagnie che frequentano...», dice a l'Unità David Lane, corrispondente dell'Economist e autore di un libro che tanto ha fatto infuriare il Cavaliere e il suo entourage: «Berlusconi's shadow».
«C'è una evidente attrazione fatale di Berlusconi per quel che riguarda i rapporti con la Libia. Rimane sempre indistinto il confine fra i suoi affari personali e le relazioni politiche un presidente del Consiglio deve necessariamente avere», rileva Luigi Zanda, Vicepresidente dei senatori del Pd, già consigliere del Cda della Rai. Che sulla vicenda svelata dal Guardian, riflette: «Mentre gli investimenti di Berlusconi in Italia nel settore televisivo hanno un valore finanziario ma oggi ancor di più sono degli strumenti di forte influenza politica, in Libia Berlusconi, utilizzando i suoi rapporti personali con Gheddafi, fa solo business. Perché non credo proprio che il Colonnello gli faccia mettere il naso negli affari della politica interna della Libia. Non per niente quando Berlusconi va in Libia bacia la mano a Gheddafi».
Un «rito» che si ripeterà il 30 agosto, quando il Raìs sbarcherà a Roma per celebrare il secondo anniversario della firma dell’Accordo di cooperazione Italia-Libia. Petrolio, armi, infrastrutture, banche...Un colossale giro di affari, parte del quale non brilla quanto a trasparenza. Il «dossier libico», come quello «russo», è materia su cui il Parlamento dovrebbe fare chiarezza. Il silenzio è più che sospetto. È complice
19 agosto 2010
di Ninni Andriolo e Umberto De Giovannangeli (l'Unità)
Una cosa ci tiene a chiarire prioritariamente: nessuno, al di là di una puntualizzazione del finanziere-produttore-amico del Cavaliere, Tarak Ben Ammar, ha provato a smentire quanto da lui scritto nell'articolo-bomba pubblicato sul Guardian il 6 settembre 2009. John Hooper è l'autore dello scoop che ha disvelato le operazioni finanziarie tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi, facendo emergere quello che il reporter britannico ha definito un «colossale conflitto di interessi». «Il fatto è – annota Hooper – che a unire i due leader non è solo il pugno di ferro contro gli immigrati clandestini. A unirli ci sono anche e per molti aspetti, soprattutto gli affari». Affari di famiglia.
È la Libyan connection. Vale la pena riportarla alla memoria, perché questa storia dà spessore e concretezza alle esternazioni sibilline di alcuni parlamentari «finiani», in primis Carmelo Briguglio, sulla «reale natura» delle relazioni tra Berlusconi e Gheddafi (e Vladimir Putin). Il Guardian scrive che nel giugno (2009) «come riportato da una piccola agenzia di stampa italiana, Radiocor», una società libica chiamata Lafitrade ha acquisito il 10 per cento della Quinta Comunication, una compagnia di produzione cinematografica fondata da Tarak Ben Ammar, storico socio di Berlusconi.
Lafitrade è controllata da Lafico, il braccio d'investimenti della famiglia Gheddafi. E l'altro partner di Ben Ammar nella Quinta Comunication è, «con circa il 22 per cento» del capitale scrive il Guardian, una società registrata in Lussemburgo di proprietà della Fininvest, la finanziaria di Berlusconi. Non solo: Quinta Comunication e Mediaset possiedono ciascuna il 25 per cento di una nuova televisione via satellite araba, la Nessma Tv, che opera anche in Libia, sulla quale Gheddafi potrebbe esercitare influenza attraverso la quota che ha rilevato nella Quinta Comunication. A Repubblica Ben Ammar puntualizza che Nessma Tv è di proprietà sua, al 25 per cento, di Mediaset per un altro 25, di due partner tunisini per il restante 50. L'ingresso di Gheddafi in Quinta Comunication, spiega, è avvenuto nell'ambito di un aumento di capitale ma solo perché interessato alla produzione di film sul mondo arabo. È bene soffermarsi su questo punto-chiave. E leggere nelle percentuali.
La sintesi è che Nessma Tv, appartiene al presidente del Consiglio italiano che ne detiene il 25% attraverso Mediaset Group, l'azienda di famiglia. Il resto è in mano per il 50% alla Karoui&Karoui World, dei fratelli Karoui, e a Tarek Ben Ammar per il restante 25% attraverso Quinta Communications. Creata nel 2007 dai fratelli Nebil e Ghazi Karoui, Nessma Tv è stata ripresa nel 2008 da Berlusconi e Ben Ammar, con l'obiettivo di farne la prima tv commerciale del Maghreb.
Un anno dopo l'articolo-scoop, il corrispondente del Guardian osserva con l'Unità che «per quanto riguarda i rapporti fra Gheddafi e Berlusconi non è stata fatta chiarezza. Il fatto è che l'opposizione non incalza il presidente del Consiglio su queste questioni. In qualunque altro Paese d'Europa, un premier sarebbe chiamato a resocontare in Parlamento sull'operato del Governo specie di fronte ad accuse di interessi personali...».
«In Inghilterra – ricorda John Hooper – il Primo ministro va due volte alla settimana in Parlamento per un confronto “uno contro uno” con il leader dell'opposizione. Berlusconi, invece, “diserta” il Parlamento ed evita il confronto. Cosa tanto più grave quando emergono sospetti concreti di un conflitto di interessi per ciò che concerne i rapporti tra Berlusconi e Gheddafi, come tra Berlusconi e Putin». Il discorso investe anche i media, pubblici (le Tv) e privati: «Dovrebbero – annota ancora Hooper – fare domande più dure, incalzanti, al premier, ma ciò, salvo rare eccezioni, non avviene...». «Berlusconi è un Primo ministro che sembra avere tra i suoi migliori amici in campo internazionale un ex capo del Kgb, Putin, e il dittatore libico, Gheddafi. Si dice che le persone si riconoscono dalla compagnie che frequentano...», dice a l'Unità David Lane, corrispondente dell'Economist e autore di un libro che tanto ha fatto infuriare il Cavaliere e il suo entourage: «Berlusconi's shadow».
«C'è una evidente attrazione fatale di Berlusconi per quel che riguarda i rapporti con la Libia. Rimane sempre indistinto il confine fra i suoi affari personali e le relazioni politiche un presidente del Consiglio deve necessariamente avere», rileva Luigi Zanda, Vicepresidente dei senatori del Pd, già consigliere del Cda della Rai. Che sulla vicenda svelata dal Guardian, riflette: «Mentre gli investimenti di Berlusconi in Italia nel settore televisivo hanno un valore finanziario ma oggi ancor di più sono degli strumenti di forte influenza politica, in Libia Berlusconi, utilizzando i suoi rapporti personali con Gheddafi, fa solo business. Perché non credo proprio che il Colonnello gli faccia mettere il naso negli affari della politica interna della Libia. Non per niente quando Berlusconi va in Libia bacia la mano a Gheddafi».
Un «rito» che si ripeterà il 30 agosto, quando il Raìs sbarcherà a Roma per celebrare il secondo anniversario della firma dell’Accordo di cooperazione Italia-Libia. Petrolio, armi, infrastrutture, banche...Un colossale giro di affari, parte del quale non brilla quanto a trasparenza. Il «dossier libico», come quello «russo», è materia su cui il Parlamento dovrebbe fare chiarezza. Il silenzio è più che sospetto. È complice
19 agosto 2010
sabato, agosto 14, 2010
Caritas: "Più sbarchi dopo intesa con Libia"
Immigrati, continuano gli sbarchi
Un flop i respingimenti in mare
MIA RIFLESSIONE PERSONALE:
SE NON TI VEDO NON ESISTI
Gli sbarchi e i respingimenti dei clandestini, sembrano magicamente spariti, nessuno ne parla più. I telegiornali che ci hanno tempestato per anni, mostrandoci la tragedia di tanti esseri umani, ora tacciono. Ma qual è la verità?
La domanda è d’obbligo: i viaggi della speranza, grazie al discutibilissimo accordo stipulato con la Libia, sono cessati veramente? No, non sono cessati sono solo spariti dalle cronache, sono stati sepolti sotto una coltre di silenzio. Quei poveri derelitti continuano, come sempre, a sbarcare sulle nostre coste, magari con altri tipi d’imbarcazione meno appariscenti e dirottati su approdi meno noti (gli squallidi traghettatori si sono immediatamente adeguati). La nostra guardia costiera continua a fermare i battelli in mare e a respingere i profughi verso un amaro destino, spesso verso le sopraffazioni e la morte, senza neppure accertarne lo status. Bisogna, tra l’altro, ricordare che non è mai diminuito anzi è aumentato il flusso via terra, ma di quello non se n’è mai parlato, è meno appariscente e per questo più facile da nascondere. In ogni modo l’operazione mediatica è perfettamente riuscita, tutti o quasi tutti sono convinti che gli sbarchi e i respingimenti siano cessati perché i clandestini vengono fermati direttamente all’imbarco o perché dissuasi, sin dall’origine, a intraprendere il lungo viaggio che dovrebbe allontanarli dalla miseria, dalle guerre e dalle persecuzioni . Quindi niente più immigrazione clandestina; nell’immaginario collettivo, questo Governo è riuscito dove altri hanno fallito. Tutto questo è falso e mi riporta alla mente una discussione di qualche anno fa su un forum rai. In quel caso c’era un’utente che affermava che ciò che non vediamo non esiste. Bizzarra affermazione, condivisa, da alcuni, con stravaganti argomentazioni, ma confutata da altri. Ne nacque una lunga discussione, non priva di spunti filosofici e strane teorie new age con richiami a scrittori tipo Carlos Castaneda, un tizio che ha vissuto lunghi anni a contatto con uno sciamano e che sotto l’effetto di piante allucinogene, raccontava di strane visioni, di consapevolezza elevata ecc. alle quali attribuiva un significato ultraterreno .
Quella discussione si protrasse per molto tempo e occupò molte pagine con elucubrazioni assurde e prive d’ogni possibile ragionevole riscontro. Ricordo che come esempio era stata o tirato in ballo il nostro satellite. In parole povere il succo del discorso era questo: “ se non osservo la luna, se giro il capo dall’altra parte o le nuvole la nascondono alla mia vista, quel corpo celeste non esiste semplicemente perché non lo vedo”. Assurdo vero? Eppure si discusse per giorni e giorni su questa coglioneria. Ecco, ora gli sbarchi invisibili mi hanno riportato a quegli anni a quel confronto, mi hanno ricordato quella sterile discussione. Gli sbarchi dei clandestini o il loro respingimento non esistono perché non li vediamo più, non ce li mostrano, sono stati occultati. Quindi se non li VEDIAMO NON ESISTONO. Purtroppo la realtà è ben diversa bisognerebbe che tutti ci facessimo carico di portarla allo scoperto perché non possiamo nascondere la testa sotto terra come gli struzzi per non vedere ciò che non ci piace o per farci abbindolare da chi ha costruito, con enormi bugie, il proprio consenso alla faccia di un popolo inebetito da una televisione asservita al potere.
Immigrati, continuano gli sbarchi
Un flop i respingimenti in mare
MIA RIFLESSIONE PERSONALE:
SE NON TI VEDO NON ESISTI
Gli sbarchi e i respingimenti dei clandestini, sembrano magicamente spariti, nessuno ne parla più. I telegiornali che ci hanno tempestato per anni, mostrandoci la tragedia di tanti esseri umani, ora tacciono. Ma qual è la verità?
La domanda è d’obbligo: i viaggi della speranza, grazie al discutibilissimo accordo stipulato con la Libia, sono cessati veramente? No, non sono cessati sono solo spariti dalle cronache, sono stati sepolti sotto una coltre di silenzio. Quei poveri derelitti continuano, come sempre, a sbarcare sulle nostre coste, magari con altri tipi d’imbarcazione meno appariscenti e dirottati su approdi meno noti (gli squallidi traghettatori si sono immediatamente adeguati). La nostra guardia costiera continua a fermare i battelli in mare e a respingere i profughi verso un amaro destino, spesso verso le sopraffazioni e la morte, senza neppure accertarne lo status. Bisogna, tra l’altro, ricordare che non è mai diminuito anzi è aumentato il flusso via terra, ma di quello non se n’è mai parlato, è meno appariscente e per questo più facile da nascondere. In ogni modo l’operazione mediatica è perfettamente riuscita, tutti o quasi tutti sono convinti che gli sbarchi e i respingimenti siano cessati perché i clandestini vengono fermati direttamente all’imbarco o perché dissuasi, sin dall’origine, a intraprendere il lungo viaggio che dovrebbe allontanarli dalla miseria, dalle guerre e dalle persecuzioni . Quindi niente più immigrazione clandestina; nell’immaginario collettivo, questo Governo è riuscito dove altri hanno fallito. Tutto questo è falso e mi riporta alla mente una discussione di qualche anno fa su un forum rai. In quel caso c’era un’utente che affermava che ciò che non vediamo non esiste. Bizzarra affermazione, condivisa, da alcuni, con stravaganti argomentazioni, ma confutata da altri. Ne nacque una lunga discussione, non priva di spunti filosofici e strane teorie new age con richiami a scrittori tipo Carlos Castaneda, un tizio che ha vissuto lunghi anni a contatto con uno sciamano e che sotto l’effetto di piante allucinogene, raccontava di strane visioni, di consapevolezza elevata ecc. alle quali attribuiva un significato ultraterreno .
Quella discussione si protrasse per molto tempo e occupò molte pagine con elucubrazioni assurde e prive d’ogni possibile ragionevole riscontro. Ricordo che come esempio era stata o tirato in ballo il nostro satellite. In parole povere il succo del discorso era questo: “ se non osservo la luna, se giro il capo dall’altra parte o le nuvole la nascondono alla mia vista, quel corpo celeste non esiste semplicemente perché non lo vedo”. Assurdo vero? Eppure si discusse per giorni e giorni su questa coglioneria. Ecco, ora gli sbarchi invisibili mi hanno riportato a quegli anni a quel confronto, mi hanno ricordato quella sterile discussione. Gli sbarchi dei clandestini o il loro respingimento non esistono perché non li vediamo più, non ce li mostrano, sono stati occultati. Quindi se non li VEDIAMO NON ESISTONO. Purtroppo la realtà è ben diversa bisognerebbe che tutti ci facessimo carico di portarla allo scoperto perché non possiamo nascondere la testa sotto terra come gli struzzi per non vedere ciò che non ci piace o per farci abbindolare da chi ha costruito, con enormi bugie, il proprio consenso alla faccia di un popolo inebetito da una televisione asservita al potere.
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mercoledì, agosto 04, 2010
L'evento rituale
Nulla più ci stupisce.
La notizia non ci emoziona, l'evento è rituale, la coscienza trova rifugio nel labirinto della dialettica.
Quando coerenza fra pensare e fare?
giovedì, giugno 17, 2010
PI: Islanda, paradiso dei giornalisti?
- Approvata all'unanimità una proposta di legge caldeggiata da Wikileaks. Che dovrebbe trasformare l'isola nordeuropea in un porto franco per il giornalismo d'inchiesta e la pubblicazione anonima delle notizie
Roma - Cinquanta voti a favore, zero contrari, un solo astenuto. Questo il risultato di una recente seduta del Parlamento islandese, che ha quindi approvato all'unanimità quella particolare proposta di legge sui nuovi media che dovrebbe trasformare l'isola nordeuropea in un vero e proprio paradiso per giornalisti.
Approvata dunque quella che è stata più volte definita la più forte legge al mondo sulla libertà d'informazione, in particolare dalla parlamentare Birgitta Jónsdóttir, tra i suoi principali sostenitori. Un'iniziativa che mira a raccogliere le migliori predisposizioni di legge al mondo, in vista di una sorta di super-legge che riconosca una volta per tutte il valore di un'informazione senza confini nazionali.
Ma di confini, in effetti, si è parlato, dal momento in cui la sola terra islandese dovrebbe trasformarsi in una sorta di porto franco per il giornalismo d'inchiesta nonché per la pubblicazione anonima da parte di fonti spifferone. Proprio come il celebre sito delle soffiate Wikileaks, il cui founder Julian Assange è tra i principali promotori della proposta di legge.
È stato infatti Assange ad annunciare gli esiti dell'approvazione del Parlamento, parlando di un rifugio per i nuovi media in terra islandese, dove ci sarebbe attualmente la più forte stampa del mondo e una legge di prossima implementazione che proteggerà ancora meglio la pubblicazione anonima delle notizie.
Secondo Jónsdóttir, i contenuti della prossima legge avrebbero attirato una parte della stampa internazionale - tra cui Der Spiegel e ABC News - che starebbe vagliando l'ipotesi di trasferire le pubblicazioni di natura investigativa in Islanda. Che dovrebbe quindi proteggere le fonti da qualsivoglia imposizione, compresa censura preventiva, proveniente da leggi di paesi esterni.
Un paradiso, dunque, che tutelerà le pubblicazioni anche da reati come quello legato alla diffamazione a mezzo stampa o web. Ma non tutti sembrano aver esultato. Secondo il Citizen Media Law Project, ci sarà sicuramente una maggiore tutela per i server operanti in Islanda, ma la pubblicazione incriminata potrebbe rimanere punibile o censurabile secondo le varie leggi internazionali.
Mauro Vecchio
http://punto-informatico.it/2917110/PI/News/islanda-paradiso-dei-giornalisti.aspx
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mercoledì, giugno 09, 2010
Bufale d'autore: Gigi D'alessio&TG2 (2)
Dopo aver scritto al direttore del TG2 siamo andati nel sito di Gigi D'Alessio. Dopo aver cliccato sul link :scrivi alla redazione, abbiamo inviato il seguente messaggio:
"Ho sentito pochi minuti fa al tg2 che il signor D'alessio avrebbe inventato un nuovo formato, l'mp4.
Ho già scritto al direttore del tg2 per avere delucidazioni in merito.
Da parte del signor D'alessio vorrei sapere se davvero si è attribuito l'invenzione o ha in qualche modo inspirato l'affermazione fatta nel servizio.
Riferimento: TG2 ore 13, martedì 8 Giugno 2010.
In attesa di cortese riscontro,
Marino Pietrella
http://www.diritto- internazionale.com "
Restiamo in curiosa attesa di risposta. Ma ce ne sarà una?
Ne dubitiamo, dunque ci prepariamo a riproporre l'argomento in tutte le aree disponibili. ... E dire che i napoletani ci sono UN SACCO SIMPATICI!!
"Ho sentito pochi minuti fa al tg2 che il signor D'alessio avrebbe inventato un nuovo formato, l'mp4.
Ho già scritto al direttore del tg2 per avere delucidazioni in merito.
Da parte del signor D'alessio vorrei sapere se davvero si è attribuito l'invenzione o ha in qualche modo inspirato l'affermazione fatta nel servizio.
Riferimento: TG2 ore 13, martedì 8 Giugno 2010.
In attesa di cortese riscontro,
Marino Pietrella
http://www.diritto-
Restiamo in curiosa attesa di risposta. Ma ce ne sarà una?
Ne dubitiamo, dunque ci prepariamo a riproporre l'argomento in tutte le aree disponibili. ... E dire che i napoletani ci sono UN SACCO SIMPATICI!!
Bufale d'autore: Gigi D'alessio&TG2
Riportiamo la lettera scritta ieri nell'area "scrivi al direttore"
Ho appena sentito (ultima notizia del tg2 ore 13 martedì 8 Giugno) che Gigi D'alessio avrebbe inventato un nuovo formato digitale, l'mp4.
MP4 è l'estensione di files MPG4.
Da wikipedia:
"nato nel 1996 e finalizzato nel 1998 (fu presentato pubblicamente ad ottobre di quell'anno), è il nome dato a un insieme di standard per la codifica dell'audio e del video digitale sviluppati dall'ISO/IEC Moving Picture Experts Group (MPEG). L'MPEG-4 è uno standard utilizzato principalmente per applicazioni come la videotelefonia e la televisione digitale, per la trasmissione di filmati via Web, e per la memorizzazione su supporti CD-ROM.
MPEG-4 è basato sugli standard MPEG-1, MPEG-2 e Apple QuickTime technology, supportandone tutte le caratteristiche; ISO approvò il formato QuickTime come base per lo standard MPEG-4, l'MPEG group riteneva infatti che fosse la migliore base di partenza e che integrasse già alcune caratteristiche essenziali[1]; lo standard evolutosi possedeva inoltre tutta una serie di nuove funzioni come la gestione tridimensionale degli oggetti (tramite un'estensione del VRML). I flussi audio e video vengono trattati dallo standard MPEG-4 come oggetti che possono essere manipolati e modificati in tempo reale bidirezionalmente. Lo standard supporta caratteristiche specificate da terze parti come una particolare gestione dei DRM o una gestione interattiva dei contenuti.
La maggior parte delle caratteristiche dell'MPEG-4 sono opzionali e quindi la loro implementazione è lasciata alla discrezione dello sviluppatore. Questo implica che parte dei lettori multimediali di file MPEG-4 non saranno magari in grado di gestire tutte le caratteristiche del formato. Per permettere un'elevata interoperabilità, nel formato sono stati inclusi i concetti di profilo e di livello, quindi i vari lettori MPEG-4 potranno essere suddivisi a seconda dei profili e livelli supportati."
Andrò ora nel sito di Gigi D'alessio per sapere se ha in qualche modo affermato o lasciato intendere di essere l'inventore di questo formato. Il lettore che ha mostrato nel servizio è in vendita in qualsiasi negozio/bancarella/bazar cinese oltrechè ovviamente online.
Sono sinceramente allibito difronte all'affermazione conclusiva del servizio, secondo la quale l'mp4 è frutto di un ingegno napoletano(quello di Gigi D'Alessio), per combattere la pirateria....
Ho appena sentito (ultima notizia del tg2 ore 13 martedì 8 Giugno) che Gigi D'alessio avrebbe inventato un nuovo formato digitale, l'mp4.
MP4 è l'estensione di files MPG4.
Da wikipedia:
"nato nel 1996 e finalizzato nel 1998 (fu presentato pubblicamente ad ottobre di quell'anno), è il nome dato a un insieme di standard per la codifica dell'audio e del video digitale sviluppati dall'ISO/IEC Moving Picture Experts Group (MPEG). L'MPEG-4 è uno standard utilizzato principalmente per applicazioni come la videotelefonia e la televisione digitale, per la trasmissione di filmati via Web, e per la memorizzazione su supporti CD-ROM.
MPEG-4 è basato sugli standard MPEG-1, MPEG-2 e Apple QuickTime technology, supportandone tutte le caratteristiche; ISO approvò il formato QuickTime come base per lo standard MPEG-4, l'MPEG group riteneva infatti che fosse la migliore base di partenza e che integrasse già alcune caratteristiche essenziali[1]; lo standard evolutosi possedeva inoltre tutta una serie di nuove funzioni come la gestione tridimensionale degli oggetti (tramite un'estensione del VRML). I flussi audio e video vengono trattati dallo standard MPEG-4 come oggetti che possono essere manipolati e modificati in tempo reale bidirezionalmente. Lo standard supporta caratteristiche specificate da terze parti come una particolare gestione dei DRM o una gestione interattiva dei contenuti.
La maggior parte delle caratteristiche dell'MPEG-4 sono opzionali e quindi la loro implementazione è lasciata alla discrezione dello sviluppatore. Questo implica che parte dei lettori multimediali di file MPEG-4 non saranno magari in grado di gestire tutte le caratteristiche del formato. Per permettere un'elevata interoperabilità, nel formato sono stati inclusi i concetti di profilo e di livello, quindi i vari lettori MPEG-4 potranno essere suddivisi a seconda dei profili e livelli supportati."
Andrò ora nel sito di Gigi D'alessio per sapere se ha in qualche modo affermato o lasciato intendere di essere l'inventore di questo formato. Il lettore che ha mostrato nel servizio è in vendita in qualsiasi negozio/bancarella/bazar cinese oltrechè ovviamente online.
Sono sinceramente allibito difronte all'affermazione conclusiva del servizio, secondo la quale l'mp4 è frutto di un ingegno napoletano(quello di Gigi D'Alessio), per combattere la pirateria....
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domenica, giugno 06, 2010
Il Fatto Quotidiano sbarca sul web e chiede aiuto alla rete
4 giugno 2010
Fra poche settimane lanceremo la nostra nuova edizione on line. Ma per garantire la libertà di informazione tutti quelli che hanno un blog o gestiscono un sito devono darci una mano
Dunque ci siamo. Tra poche settimane Il Fatto Quotidiano sarà finalmente on line. In queste ore i nostri tecnici e i nostri giornalisti sono al lavoro per stabilire la data definitiva dell'uscita del sito in versione Beta. Poi, per tutta l'estate vedremo come funzionano le cose, ascolteremo i suggerimenti che ci arriveranno dalla rete, e entro l'autunno lanceremo la versione definitiva. Abbiamo molte idee. Le principali sono comunque due. La prima: fare anche sul web informazione senza padroni e censure. La seconda: dar vita a un sito che possa accogliere le opinioni e i pensieri di tutti, selezionando quanto ci sarà inviato o troveremo in Rete.
La sfida, non lo nascondiamo, è molto difficile. In redazione siamo in pochi e questa volta per coprire le spese e avere i capitali necessari per i nuovi investimenti dovremo raccogliere pubblicità. Per questo Il Fatto Quotidiano on-line dovrà avere tantissimi visitatori. Noi contiamo di riuscirci continuando a dire le cose che gli altri non dicono, raccontando storie e notizie che è impossibile leggere altrove. Ma questo non basta. Dobbiamo farci conoscere. Ed è qui che chiunque tiene alla libertà di parola, chiunque pensa che l'informazione nel nostro Paese sia messa in ginocchio non solo dalle leggi bavaglio, ma anche da giornali e tv al servizio del potente di turno, può darci una grossa mano. Vogliamo che tutti, ma proprio tutti, sappiano che il nuovo sito de il Fatto Quotidiano sta venendo alla luce. Per questo chiediamo ai blogger e a chi gestisce un sito di aiutarci mettendo a disposizione i loro spazi sul web per la nostra campagna di lancio. Stiamo lavorando a dei banner davvero poco convenzionali. Se siete disposti a ospitarli segnalate il vostro link a questa mail: iosupporto@ilfattoquotidiano.it
Entro pochi giorni verrete ricontattati e vi verrà fornito l'indirizzo di un link da dove potrete prendere il codice da inserire nella vostra pagina internet. La nostra richiesta è di tenere il tutto on line nel periodo di lancio del sito, che vi verrà comunicato quanto prima.
Del banner non convenzionale vi verranno anche fornite le specifiche tecniche e un tutorial utile per inserirlo correttamente . In alternativa abbiamo a disposizione anche un banner, per così dire, normale. In ogni caso l'importante è essere in tanti. Perché l'informazione libera è un bene di tutti e solo tutti assieme possiamo difenderla. E farla crescere.
Peter Gomez e Marco Travaglio
4 giugno 2010
Fra poche settimane lanceremo la nostra nuova edizione on line. Ma per garantire la libertà di informazione tutti quelli che hanno un blog o gestiscono un sito devono darci una mano
Dunque ci siamo. Tra poche settimane Il Fatto Quotidiano sarà finalmente on line. In queste ore i nostri tecnici e i nostri giornalisti sono al lavoro per stabilire la data definitiva dell'uscita del sito in versione Beta. Poi, per tutta l'estate vedremo come funzionano le cose, ascolteremo i suggerimenti che ci arriveranno dalla rete, e entro l'autunno lanceremo la versione definitiva. Abbiamo molte idee. Le principali sono comunque due. La prima: fare anche sul web informazione senza padroni e censure. La seconda: dar vita a un sito che possa accogliere le opinioni e i pensieri di tutti, selezionando quanto ci sarà inviato o troveremo in Rete.
La sfida, non lo nascondiamo, è molto difficile. In redazione siamo in pochi e questa volta per coprire le spese e avere i capitali necessari per i nuovi investimenti dovremo raccogliere pubblicità. Per questo Il Fatto Quotidiano on-line dovrà avere tantissimi visitatori. Noi contiamo di riuscirci continuando a dire le cose che gli altri non dicono, raccontando storie e notizie che è impossibile leggere altrove. Ma questo non basta. Dobbiamo farci conoscere. Ed è qui che chiunque tiene alla libertà di parola, chiunque pensa che l'informazione nel nostro Paese sia messa in ginocchio non solo dalle leggi bavaglio, ma anche da giornali e tv al servizio del potente di turno, può darci una grossa mano. Vogliamo che tutti, ma proprio tutti, sappiano che il nuovo sito de il Fatto Quotidiano sta venendo alla luce. Per questo chiediamo ai blogger e a chi gestisce un sito di aiutarci mettendo a disposizione i loro spazi sul web per la nostra campagna di lancio. Stiamo lavorando a dei banner davvero poco convenzionali. Se siete disposti a ospitarli segnalate il vostro link a questa mail: iosupporto@ilfattoquotidiano.it
Entro pochi giorni verrete ricontattati e vi verrà fornito l'indirizzo di un link da dove potrete prendere il codice da inserire nella vostra pagina internet. La nostra richiesta è di tenere il tutto on line nel periodo di lancio del sito, che vi verrà comunicato quanto prima.
Del banner non convenzionale vi verranno anche fornite le specifiche tecniche e un tutorial utile per inserirlo correttamente . In alternativa abbiamo a disposizione anche un banner, per così dire, normale. In ogni caso l'importante è essere in tanti. Perché l'informazione libera è un bene di tutti e solo tutti assieme possiamo difenderla. E farla crescere.
Peter Gomez e Marco Travaglio
sabato, giugno 05, 2010
Anche noi abbiamo pubblicato la bufala, prendiamo atto che lo era.
Marco
Fioretti in STOP.ZONA-M scrive:
A maggio e dicembre 2009 la Rete italiana è stata sommersa da un comunicato sull'avvenuta approvazione (che invece non era avvenuta) di un emendamento che avrebbe introdotto il carcere per i blogger disobbedienti: i dettagli sul perché questa era una bufala anche allora li trovate in un altro mio articolo. Purtroppo ho appena scoperto (24 maggio 2010) che su Facebook e tanti altri siti questo mese è riapparso, spacciato come vero e recente, quello stesso comunicato!
Provare per credere: cercate su Internet la frase (virgolette comprese) "Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733)" e poi ripetete la stessa ricerca ma solo sulle pagine pubblicate a maggio 2009 (se non sapete come, ecco le istruzioni per trovare con Google solo le pagine pubblicate in uno specifico periodo).
Nel secondo caso troverete diversi siti che hanno pubblicato quel comunicato a maggio 2009 (e già allora era falso ]). Nel primo, troverete centinaia di siti che hanno pubblicato quel testo a maggio 2010 senza cambiare o aggiungere una parola: quindi chi li legge capisce che l'emendamento è passato ("Ieri...") a maggio 2010!
Aggiornamento 29/5/2010: Ecco la smentita ufficiale in data 27 maggio 2010 sul sito dell'UDC:
"Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50bis: /Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet. La prossima settimana il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60. Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della ‘Casta'..."
Questo l'inizio di un messaggio che da settimane circola su web, su numerosi siti e blog, pubblicato sempre nella stessa forma. Si tratta di un ‘fake', ovvero di una notizia priva di fondamento, come spiega in un video messaggio il capogruppo Udc a palazzo Madama, Gianpiero D'Alia: "Per la verità al Senato non si discute alcun pacchetto sicurezza e non vi è alcuna norma bavaglio ad esso collegata".
Nello smentire "queste scemenze" D'Alia invita tutti a non distrarsi da un provvedimento vero, il ddl intercettazioni, che così come è attualmente configurato "rischia di ridimensionare fortemente il diritto di cronaca e di indagine".
"La maggioranza - conclude - ha approvato in Commissione la legge di riforma delle intercettazioni che limita fortemente la possibilità di informare i cittadini anche attraverso la rete oltre che sui giornali. Di questo dovremmo occuparci tutti insieme e non di notizie false e datate".
Fioretti in STOP.ZONA-M scrive:
A maggio e dicembre 2009 la Rete italiana è stata sommersa da un comunicato sull'avvenuta approvazione (che invece non era avvenuta) di un emendamento che avrebbe introdotto il carcere per i blogger disobbedienti: i dettagli sul perché questa era una bufala anche allora li trovate in un altro mio articolo. Purtroppo ho appena scoperto (24 maggio 2010) che su Facebook e tanti altri siti questo mese è riapparso, spacciato come vero e recente, quello stesso comunicato!
Provare per credere: cercate su Internet la frase (virgolette comprese) "Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733)" e poi ripetete la stessa ricerca ma solo sulle pagine pubblicate a maggio 2009 (se non sapete come, ecco le istruzioni per trovare con Google solo le pagine pubblicate in uno specifico periodo).
Nel secondo caso troverete diversi siti che hanno pubblicato quel comunicato a maggio 2009 (e già allora era falso ]). Nel primo, troverete centinaia di siti che hanno pubblicato quel testo a maggio 2010 senza cambiare o aggiungere una parola: quindi chi li legge capisce che l'emendamento è passato ("Ieri...") a maggio 2010!
Aggiornamento 29/5/2010: Ecco la smentita ufficiale in data 27 maggio 2010 sul sito dell'UDC:
"Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50bis: /Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet. La prossima settimana il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60. Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della ‘Casta'..."
Questo l'inizio di un messaggio che da settimane circola su web, su numerosi siti e blog, pubblicato sempre nella stessa forma. Si tratta di un ‘fake', ovvero di una notizia priva di fondamento, come spiega in un video messaggio il capogruppo Udc a palazzo Madama, Gianpiero D'Alia: "Per la verità al Senato non si discute alcun pacchetto sicurezza e non vi è alcuna norma bavaglio ad esso collegata".
Nello smentire "queste scemenze" D'Alia invita tutti a non distrarsi da un provvedimento vero, il ddl intercettazioni, che così come è attualmente configurato "rischia di ridimensionare fortemente il diritto di cronaca e di indagine".
"La maggioranza - conclude - ha approvato in Commissione la legge di riforma delle intercettazioni che limita fortemente la possibilità di informare i cittadini anche attraverso la rete oltre che sui giornali. Di questo dovremmo occuparci tutti insieme e non di notizie false e datate".
Europa, crisi o fine?
Le due Europe. Di una tragedia (greca) senza catarsi
Quel che insegnano i fatti di Atene di Etienne Balibar, il manifesto, 27 maggio 2010
In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi.Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.
I greci hanno ragione a rivoltarsi
Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese.Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazone, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell' «ortodossia».
Una politica che occulta il suo volto
Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.
Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:
- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.
- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.
- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori.E sicuramente viene fatto apposta.
Dove va la globalizzazione?
A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidaile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.
Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazoni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.
Populismo: pericolo o risorsa?
E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).
Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne apporofittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.
Dov'è la sinistra europea?
Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.
Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialemente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su cio' che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.
Traduzione di Anna Maria Merlo
Le due Europe. Di una tragedia (greca) senza catarsi
Quel che insegnano i fatti di Atene di Etienne Balibar, il manifesto, 27 maggio 2010
In poche settimane, abbiamo assistito alla rivelazione da parte del primo ministro Papandreu del debito «reale» della Grecia, manipolato dal suo predecessore con l'aiuto di Goldmann Sachs; all'annuncio della possibilità che il suo Paese non ce la faccia a pagare i nuovi interessi sul debito, brutalmente moltiplicati; all'imposizione alla Grecia di un piano di austerità selvaggio, come contropartita del prestito europeo. Poi l'«abbassamento del voto» della Spagna e del Portogallo, la minaccia dell'implosione dell'euro, la creazione di un fondo di aiuto europeo di 750 miliardi (su richiesta, in particolare, degli Stati uniti). Infine, la decisione della Bce, in contraddizione con il suo statuto, di acquisire delle obbligazioni statali, e l'adozione di politiche di rigore in una decina di paesi.Ce n'est qu'un début, non è che l'inizio, poiché questi nuovi episodi di una crisi apertasi due anni fa con il crollo dei crediti immobiliari statunitensi ne prefigurano altri. Dimostrano che il rischio di crac persiste o addirittura aumenta, alimentato da una massa enorme di titoli «spazzatura», accumulata nel corso del decennio precedente grazie ai consumi a credito, alla trasformazione dei titoli dubbiosi e dei credit default swaps in prodotti finanziari, oggetto di speculazione a breve. Il tormentone dei crediti dubbiosi continua, e gli stati sono in affanno. La speculazione investe ormai le monete e il debito pubblico. L'euro rappresenta oggi l'anello debole di questa catena, e trascina l'Europa. Le conseguenze saranno devastanti.
I greci hanno ragione a rivoltarsi
Prima conseguenza della crisi e della «medicina» che le è stata applicata: la rabbia della popolazione greca. Hanno torto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità? Hanno ragione a denunciare una «punizione collettiva»? Indipendentemente dalle provocazioni criminali che l'hanno viziata, questa rabbia si giustifica per almeno tre motivi. L'imposizione dell'austerità è stata accompagnata da una stigmatizzazione delirante del popolo greco, considerato colpevole per la corruzione e le menzogne della sua classe politica, di cui (qui come altrove) approfittano ampiamente i più ricchi (in particolare sotto la forma dell'evasione fiscale). L'austerità, ancora una volta, è stata imposta rovesciando gli impegni elettorali del governo, al di fuori di qualsiasi dibattito democratico. Infine, abbiamo visto l'Europa applicare al suo interno non delle procedure di solidarietà, ma le regole leonine del Fondo monetario internazionale, che mirano a proteggere i crediti delle banche, mentre annunciano una prevedibile recessione senza fine per il paese.Gli economisti, su queste basi, concordano nel pronosticare un default certo del tesoro greco, un contagio della crisi e un'esplosione del tasso di disoccupazone, soprattutto se le stesse regole verranno applicate ad altri paesi virtualmente in fallimento stando alle «notazioni» del mercato, come reclamano ad alta voce i difensori dell' «ortodossia».
Una politica che occulta il suo volto
Nel «salvataggio» della moneta comune, di cui i greci sono stati le prime vittime (ma non saranno gli ultimi), le modalità che hanno prevalso finora (imposte, in particolare, dalla Germania) hanno messo in primo piano, come priorità, la generalizzazione del «rigore» di bilancio (inscritto nei trattati fondatori, ma nei fatti mai veramente applicato) e, ma solo in secondo luogo,la necessità di una «regolazione» - molto moderata - della speculazione e della libertà degli hedge funds (già evocata dopo la crisi dei subprimes e dei fallimenti bancari del 2008). Gli economisti neo-keynesiani aggiungono a queste esigenze dei passi avanti verso il «governo economico» europeo (in particolare l'unificazione delle politiche fiscali), o dei piani di investimento elaborati in comune: senza questo, affermano, l'esistenza stessa della moneta unica si rivelerà impossibile.
Si tratta, evidentemente, di proposte assolutamente politiche (e non tecniche). Sono alternative che i cittadini dovrebbero dibattere, poiché le conseguenze di queste scelte saranno irreversibili per la collettività. Ma il dibattito è falsato dalla dissimulazione di tre dati essenziali:
- la difesa di una moneta e la sua utilizzazione congiunturale (sostegno, svalutazione) comportano sia un assoggettamento delle politiche economiche e sociali all'onnipotenza dei mercati finanziari (con le loro «notazioni» che si auto-realizzano e i loro «verdetti» che non lasciano spazio a nessun appello), sia una crescita della capacità degli stati (e, più in generale, della potenza pubblica) a limitarne l'instabilità e a privilegiare gli interessi a lungo termine sui profitti speculativi. Una strada o un'altra, tertium non datur.
- con la scusa di una relativa armonizzazione delle istituzioni e di una garanzia di alcuni diritti fondamentali, la costruzione europea, nella sua forma attuale, con le forze che l'orientano, non ha smesso di favorire la divergenza delle economie nazionali, che in teoria avrebbe invece dovuto ravvicinare all'interno di una zona di prosperità condivisa: alcune economie ne dominano altre, sia in termini di parti di mercato, sia in termini di concentrazione bancaria, sia trasformandole in fornitori in subappalto. Gli interessi delle nazioni, se non quelli dei popoli, diventano contraddittori.
- il terzo pilastro di una politica keynesiana generatrice di fiducia, oltre la moneta e il fisco, cioè la politica sociale, la ricerca della piena occupazione e la crescita della domanda attraverso il consumo popolare, viene sistematicamente passato sotto silenzio, anche dai riformatori.E sicuramente viene fatto apposta.
Dove va la globalizzazione?
A cosa serve, d'altronde, riflettere e discutere sull'avvenire dell'Europa e della sua moneta (dalla quale alcuni grandi paesi si tengono alla larga: Gran Bretagna, Polonia, Svezia), se non si tiene conto delle tendenze reali della globalizzazione? Se la gestione politica della crisi finanziaria resta fuori portata per le popolazioni e i governi implicati, l'effetto sarà una formidaile accelerazione dei processi in corso. Di che cosa si tratta? In primo luogo, del passaggio da una forma di concorrenza a un'altra: dai capitalismi produttivi ai territori nazionali, dove ognuno, a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore lavoro, tenta di attirare più capitali fluttuanti del vicino. E' più che evidente che l'avvenire politico, sociale e culturale dell'Europa in generale - e di ogni paese in particolare - dipende dal fatto di sapere se l'Europa costituisce un meccanismo di solidarietà e di difesa collettiva delle popolazioni contro il «rischio sistemico», oppure se, al contrario (con l'appoggio di alcuni stati, momentaneamente dominanti, e delle loro opinioni pubbliche) si tratta di un quadro giuridico per intensificare la concorrenza tra gli stati membri e tra i cittadini.
Inoltre, si tratta, più generalmente, del modo in cui la mondializzazione sta sconvolgendo la divisione del lavoro e la ripartizione dell'occupazione nel mondo: in questa ristrutturazione che sovverte nord e sud, ovest e est, una nuova crescita delle ineguaglianze e dell'esclusione in Europa, l'annientamento della classe media, la diminuzione dei lavori qualificati e delle attività produttive «non protette», dei diritti sociali, delle industrie culturali e dei servizi pubblici universali, sono per così dire già programmati. Le resistenze all'integrazione politica, con la scusa di difendere la sovranità nazionale, non possono che aggravare gli effetti nella maggior parte delle nazoni e precipitare il ritorno (già ben avviato) degli antagonismi etnici che l'Europa aveva preteso di oltrepassare definitivamente al suo interno. Ma inversamente è chiaro che non ci sarà un'integrazione europea «dall'alto», in virtù di un'ingiunzione burocratica, senza un progresso democratico in ogni paese e in tutto il continente.
Populismo: pericolo o risorsa?
E' la fine dell'Unione europea, di questa costruzione la cui storia era cominciata 50 anni fa sulla base di una vecchia utopia, ma le cui promesse non sarebbero state mantenute? Non bisogna aver paura di dirlo: sì, ineluttabilmente, a una più o meno breve scadenza e non senza qualche prevedibile violenta scossa, l'Europa è morta come progetto politico, a meno che non riesca a rifondarsi su nuove basi. Un'implosione abbandonerebbe ancora di più i popoli che la compongono oggi alle incertezze della globalizzazione, come sugheri in un torrente. Una rifondazione non garantisce nulla, ma dà qualche possibilità di esercitare una forza geopolitica, a proprio vantaggio e per quello degli altri, a condizione di osare affrontare le immense sfide di un federalismo di nuovo tipo. Si tratta della potenza pubblica comunitaria (distinta sia dallo stato che da una semplice «governance» di politici ed esperti), di eguaglianza tra le nazioni (il contrario dei nazionalismi reattivi, sia quello dei «forti» che quello dei «deboli») e di rinnovamento della democrazia nello spazio europeo (il contrario della «de-democratizzazione» attuale, favorita dal neo-liberismo e dallo «statalismo senza stato» delle amministrazioni europee, colonizzate dalla casta burocratica, che sono anche per buona parte all'origine della corruzione pubblica).
Da tempo avremmo dovuto ammettere questo fatto evidente: non ci saranno passi avanti verso il federalismo, in effetti oggi auspicabile, senza un passo avanti della democrazia al di là delle forme esistenti, in particolare con una intensificazione dell'intervento popolare nelle istituzioni sovranazionali. Significa che, per rovesciare il corso della storia, scuotere le abitudini di una costruzione ormai senza fiato, ci sia bisogno oggi di qualcosa che può essere definito un populismo europeo, un movimento convergente delle masse o un'insurrezione pacifica, attraverso la quale venga espressa contemporaneamente la rabbia delle vittime della crisi contro coloro che ne apporofittano (o la alimentano) e l'esigenza di un controllo «dal basso» sugli scambi tra finanza, mercati e politica degli stati? Sì, senza dubbio, perché non c'è altro nome per definire la politicizzazione del popolo, ma a condizione - se si vogliono scongiurare altre catastrofi - che vengano istituiti seri controlli costituzionali e che rinascano delle forze politiche su scala europea, in grado di far prevalere all'interno di questo populismo «post-nazionale» una cultura, un immaginario e degli ideali democratici intransigenti. C'è un rischio, ma è minore di quello di lasciare libero corso ai diversi nazionalismi.
Dov'è la sinistra europea?
Queste forze costituiscono ciò che tradizionalmente, nel continente, era chiamata la sinistra. Ma anch'essa è in stato di fallimento politico: a livello nazionale e internazionale. Nello spazio che ormai conta, che attraversa le frontiere, ha perso qualsiasi capacità di rappresentazione delle lotte sociali o di organizzazione di movimenti di emancipazione, in maggioranza si è allineata ai dogmi e ai ragionamenti del neo-liberismo. Di conseguenza, si è disintegrata dal punto di vista ideologico. Coloro che la incarnano sono soltanto gli spettatori e, in mancanza di seguito popolare, i commentatori impotenti di una crisi contro la quale non propongono nessuna risposta collettiva: niente dopo lo choc finanziario del 2008, niente dopo l'imposizione alla Grecia delle ricette dell'Fmi (peraltro vigorosamente denunciate in altri luoghi e in altri tempi), niente per «salvare l'euro» altrimenti che pesando sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori, niente per rilanciare il dibattito sulle possibilità e gli obiettivi dell'Europa solidale.
Cosa succederà, in queste condizioni, quando entreremo nelle nuove fasi della crisi, che devono ancora intervenire? Quando le politiche nazionali sempre più securitarie si svuoteranno del loro contenuto (o del loro alibi) sociale? Ci saranno dei movimenti di protesta, senza dubbio, ma isolati, che potranno venire deviati verso la violenza o recuperati dalla xenofobia e il razzismo già galoppanti, destinati a produrre ancora maggiore impotenza e più disperazione. Tuttavia, la destra capitalista e nazionalista, benché non resti inattiva, è potenzialemente divisa tra strategie contraddittorie: lo si è visto a proposito dei deficit e dei piani di rilancio economico, lo vedremo ancora di più quando l'esistenza delle istituzioni europee sarà in gioco (come prefigura, probabilmente, l'evoluzione britannica). Ci sarebbe qui un'occasione da sfruttare, la possibilità di agire. Delineare e dibattere su cio' che potrebbe essere, su ciò che dovrebbe essere una politica anti-crisi su scala europea, democraticamente definita, che cammini sulle due gambe (del governo economico e della politica sociale), capace di eliminare la corruzione e di ridurre le ineguaglianze che l'alimentano, di ristrutturare il debito e di promuovere gli obiettivi comuni che giustificano i trasferimenti tra nazioni solidali le une con le altre. Sarebbe questa la funzione degli intellettuali progressisti europei, sia che si definiscano rivoluzionari o progressisti. Non ci sono scuse per tirarsi indietro.
Traduzione di Anna Maria Merlo
domenica, maggio 30, 2010
Di molti, ma non di tutti: i diritti come patrimonio etnico. Intervista a Nadia Urbinati
da "Una città", n. 174, maggio 2010, via Eddyburg.it
Diritti, cittadinanza, lingua, religione, tutto diventa patrimonio etnico di una maggioranza che decide chi potrà accedere ai diritti e chi no; la novità di una reazione identitaria, comunitaria, che si combina con l’accettazione piena del liberismo economico; in Europa un attacco antilluministico senza precedenti.
In tutta Europa avanzano partiti xenofobi. Da quel che abbiamo capito tu sei molto pessimista e preoccupata. Cosa sta succedendo?
Mi sembra che sia in corso una trasformazione della democrazia in Europa, non solo in Italia. Stiamo assistendo al declino delle filosofie universalistiche, ma, paradossalmente, non in filosofia, bensì in politica. Nelle accademie le filosofie universalistiche sono egemoni. Ci sono certo stati revisioni e adattamenti; tentativi di armonizzare conoscenza locale e universale, multiculturalismo e liberalismo. Per esempio dopo più di vent’anni di fruttuoso dibattito, i comunitari hanno stemperato le loro posizioni particolaristiche. Del resto, non bisogna dimenticare che le filosofie più attraenti, diciamo più in vista, sono quelle legate a visioni universali della natura umana, all’idea di flourishing, di benessere della persona: pensiamo a Marta Nussbaum o Amartya Sen. Quindi c’è un quadro teorico ben strutturato in chiave universalista.
Ma questo riguarda l’accademia, è contenuto nei libri che leggiamo; che leggono pochissime persone. Se usciamo da questo gruppo ristretto e anche specialistico, vediamo uno scenario molto diverso. Nella realtà quotidiana nella quale viviamo, per esempio nell’Occidente europeo, sembra che si stiano verificando cose completamente diverse: l’universalismo è sotto attacco. Qui l’idea di uguali diritti è sotto processo, la stessa idea di integrazione europea come una grande casa comune di liberi e diversi è a rischio, almeno sotto il profilo ideologico. Le regole ci sono ancora, certamente; la moneta unica c’è ancora (benché sotto tiro del capitale finanziario globale), le istituzioni che presidiano i diritti e l’eguaglianza, come la Corte, ci sono ancora; però quello che viene avanti con sistematica tenacia, a livello nazionale degli Stati membri, è un attacco frontale all’universalismo, ai diritti individuali, all’idea di persona scorporata da ogni identità locale. Nel mondo della vita concreta delle nostre società c’è una rinascita del comunitarismo, di un comunitarismo etnico, radicato in presunte tradizioni, pre-politico. L’abbiamo visto nelle ultime elezioni in Ungheria, nella civilissima Olanda, poi in Italia, in Polonia: ci sono fenomeni che vanno esattamente verso una disgregazione delle grandi costruzioni post-nazionali nate in nome di ideali universalistici di pace, di unificazione, di cosmopolitismo, di inclusione. Le nostre Costituzioni, le carte dei diritti, le convenzioni internazionali, l’Unione Europea, sono nate proprio in reazione e per opporsi alle esperienze totalitarie fasciste, che erano e sono profondamente identitarie.
Sì, è vero che, nel caso di quei totalitarismi, più che un’etnia c’era un’ideologia invadente e potentissima che esaltava un ordine nel quale il partito era integrato allo Stato; tuttavia, il totalitarismo, il nazionalismo fascista erano comunque forme anti-illuministe, anti-individualiste (se dell’individualismo abbiamo una visione liberale), senza meno. Le nostre Costituzioni sono nate proprio per proteggerci da queste orrende cose.
Ora, questo che accade sotto i nostri occhi ci dice invece che non siamo per niente protetti, che queste carte costituzionali non ci proteggono abbastanza, perché forse nel frattempo non si è voluto curare il male profondo che c’era all’origine, che sono i fondamenti culturali dell’ideologia identitaria delle democrazie europee; vizi che non si sono mai corretti, mai sciolti, mai emendati. Le nostre democrazie europee sono nate su un elemento identitario. La nazione per tanto tempo ha avuto una funzione democratica, emancipatrice, “una nazione di cittadini”, come dice Habermas, e non di membri. Benissimo. Però in situazioni come questa, forse per ragioni che gli economisti, i sociologi e i pubblicisti dovrebbero analizzare (cioè per cause economiche, di declino del benessere), assistiamo a una rilettura della nazione in chiave etnica.
I diritti diventano un patrimonio etnico?Esattamente: è l’identificazione della libertà, e quindi dei diritti, col possesso; il possesso del suolo, il possesso di una cultura, il possesso di una lingua, il possesso di una religione. Ora, l’idea di possesso, l’idea, cioè, di essere noi i possessori legittimi di quella che chiamiamo la nostra terra, la nostra nazione, la nostra stessa Costituzione, ci induce a leggere i diritti non come uno strumento che stempera questo istintivo possessivismo che esiste nella nostra storia, ma che invece lo fagocita. Quando si vogliono tener fuori gli immigrati, non li si vuole solo tener fuori fisicamente dai nostri confini (spesso vengono in realtà accettati), ma li si vuole tener fuori anche quando sono dentro, quando vivono sotto le nostre leggi e pagano come noi le tasse; li si vuole escludere dalla cittadinanza attiva, da una democrazia attiva. E perché? Perché, si sente dire sempre più spesso, i diritti appartengono a noi.
Ma stiamo attenti, perché queste nuove forme di pensiero comunitario o anti-illuminista non sono un ritorno indietro. I comunitari etnici di oggi non vogliono ritornare a vivere come si viveva prima della società di mercato, prima della rivoluzione, prima, prima... Non ci pensano nemmeno: questi amano la tecnologia, sono figli del nostro tempo, non rifiutano per niente il liberalismo economico, non rifiutano per niente il mercato. E così si crea un’alleanza anche stretta fra queste forme, che sembrano retrograde, e le forme più avanzate di tecnologia e di cultura politica come il liberalismo, per esempio. Questo connubio non appartiene alle forme di comunitarismo del passato o alla tradizione antilluministica classica, è nuovo.
Si è detto anche che i diritti li si deve meritare…Sì, e francamente di tutta questa grande manfrina che si è fatta sul merito non se ne può più. Sembra che tu il merito ce l’abbia dalla nascita, che non sia, cioè, qualcosa di costruito, di situato in una società, secondo le capacità di cui la società ha bisogno, dei criteri di valutazione in base all’utile sociale. Oggi c’è l’idea che tu devi meritare le cose che hai senz’altra specificazione. Ma ci sono cose che, meritate o no, le hai, punto e basta. Tu hai dei diritti perché sei un essere umano, non devi meritarteli. Questa è la tradizione del mondo occidentale, dalla Rivoluzione francese in poi, questo è il punto fondamentale della nostra politica, che si chiama Stato costituzionale, Stato di diritto, eccetera. Oggi, invece, con questa idea di nazione non più legata alla legalità, al diritto, ma all’etnia, all’identità culturale, una maggioranza potrà decidere se tu ti meriti o non ti meriti un diritto, se tu potrai appartenere al gruppo che detiene i diritti o no.
E’ una concezione da democrazia “maggioritaristica”, in fondo dispotica, in cui il gruppo di maggioranza decreta se gli altri meritano di accedere alla stessa mensa o se dovranno restar separati.
La stessa religione entra a far parte dei possedimenti…
Ma la religione non è “possedere” una fede o una tradizione, ma “credere”, esercitare una libertà di credere. Dice Tocqueville: “Solo i popoli liberi hanno fede”. Gli altri non hanno fede, perché la fede è uno degli atti più liberi: diversamente c’è ipocrisia, la negazione della fede. C’è libertà di religione non solo per consentire agli altri di esistere, ma per consentire a te di esprimere la tua fede. La fede non è una cosa che possiedi, è un esercizio, un’espressione, una pratica, quindi hai bisogno di un diritto. Invece no, sembra che oggi la fede non sia più fede, ma essenzialmente religione costituita: noi la possediamo, questa è la nostra, gli altri possiedono la loro e devono star fuori, perché altrimenti ce la contaminano. L’idea sempre più diffusa, che fa veramente paura, è quella del possesso dei diritti.
Ma questo possesso, ed è qui il problema secondo me su cui bisognerebbe lavorare molto, non è -lo ripeto- necessariamente in contraddizione con la modernità e le forme estreme di liberalismo. Quando dico forme estreme di liberalismo intendo quelle che insistono molto sul successo, sulla capacità di fare, di costruire, di produrre, di accumulare, che è una capacità che tu hai in un mercato libero, in una società che si basa sullo scambio.
Ricordo un libro molto bello, forse meritevole di rilettura, di Macpherson, Possessive liberalism. Ecco, oggi assistiamo alla coniugazione tra un liberalismo possessivo, basato sull’idea che tu possiedi quello che è l’esito del tuo lavoro, la tua energia, la tua vita, e l’idea di una comunità possessiva a livello comunitario. Questa idea del “possesso” travalica l’economia, per diventare un minimo comune denominatore che può unire tutto. E infatti, fra questi comunitari del possesso, possiamo trovare dei veri e propri fascisti, come in Ungheria, gente che ritorna a dire “il nostro suolo” senza odiare il liberalismo. Questa che sembrava una bestemmia non lo è più.
Ma vedi qualcosa di questo genere anche in Italia?
Certo, l’Italia è un caso esemplare. Si potrebbe pensare che l’alleanza fra Bossi e Berlusconi sia una pura alleanza di governo; io penso invece che la convergenza sia profonda, perché i due movimenti sono legati nella cultura, fondata in entrambi i casi sul possesso.
Nel caso di Bossi, è il possesso del territorio, della lingua, della tradizione, secondo una visione etnica dell’identità, che si crede radicata o si pretende che lo sia, e rispetto alla quale si giudicano gli altri. I leghisti dicono: “la libertà nostra”, quindi una libertà radicata dentro di noi come etnia, non come esseri umani. Dall’altra parte, in una realtà mossa da valori opposti a quelli del radicamento nel suolo (il potere capitalistico è senza patria e non ha alcun radicamento, tanto più se è capitalismo finanziario) ritrovi dominante l’idea del possesso, un possesso strumentalmente funzionale al capitalismo globale: le istituzioni politiche, i diritti, la legge, tutto deve essere funzionale a questo possesso, ed è il possesso che determina il valore.
Berlusconi vuole mutare la Costituzione? Non dobbiamo pensare che sia un pazzo, oppure un vanaglorioso, oppure un tiranno. Forse è tutte queste cose insieme. Ma il suo “volere” ha una logica secondo la quale la dimensione materiale della vita, ovvero i rapporti di potere, di forza, i possessi, gli interessi, devono dettare le leggi e devono plasmare la dimensione istituzionale e normativa.
Quindi quell’idea antica per cui nella democrazia la politica dovesse avere una funzione non strumentale, e anche se, o proprio perché gli interessi si combattono in Parlamento, doveva cercare di mediare; l’idea cioè che ci dovesse essere una dimensione di impersonale separatezza, perché diversamente la legge di natura domina, portando al dominio del più forte; ebbene quell’idea è in declino. Infatti la dimensione impersonale e istituzionale sembra che non abbia più le risorse interne per essere autonoma, e viene quindi fagocitata, presa, rapita, dalla dimensione del possesso, sia esso del territorio, o dell’etnia, oppure del possesso vero, economico. Questo è uno scenario preoccupante, perché significa davvero che la Costituzione legale è il mezzo di quella materiale, affinché quella materiale faccia il suo corso. Quella materiale dice che i rapporti di potere presenti nella società, nell’economia, nella famiglia, invece di essere limitati, stemperati, controllati da un potere superiore, si prendono quel potere superiore e in questo modo si legittimano. Cioè l’abnormal becomes the norm, quello che è anormale si normalizza impossessandosi della legge.
La dimensione della separazione della sfera del possedere o della materialità, da quella della legge o della norma, o della impersonalità, viene così ad erodersi, a scomparire, in alcuni casi. Con nostro grave pericolo, perché è come dire che la vita come è nel presente contingente diventa la norma. Non c’è più una dimensione trascendente, che noi accettiamo e nella quale ci specchiamo come individui. E ritorna buono il detto di De Maistre: “Io non ho mai visto individui, ho visto francesi, tedeschi, italiani...”, cioè ha visto l’immediatezza della specificità, mai l’universalità del “come se”, della norma.
Noi europei, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo lottato per mantenere questo spazio trascendente e simbolico rappresentato dalle norme (che ha preso il nome di cittadinanza) separato dalla vita empirica concreta; lo abbiamo fatto proprio perché, come individui concreti, con una materialità, una locazione o una biografia specifiche, ci possiamo riflettere in quella dimensione universale e sentire che, oltre alla nostra realtà immediata, ce n’è un’altra alla quale apparteniamo e per mezzo della quale ci possiamo relazionare agli altri, a tutti, sia coloro che parlano la nostra lingua sia gli stranieri. Ecco, questa trascendenza rispetto alla vita, alla quotidianità, all’essere come è, nella dimensione di vita irriflessa, pare cadere.
L’idea che vive nella cultura popolare è che chi vince si impossessa delle regole; se abiti questo territorio, immediatamente stabilisci chi è dentro e chi è fuori, stabilisci che tu sei il territorio, te lo prendi, è tuo. Questo io penso che sia spaventoso…
Il federalismo qui diventa qualcosa di molto cupo…
Ma è esattamente l’opposto di quello che pensava chi apparteneva alla tradizione liberal-socialista, o i federalisti di Ventotene. Loro pensavano al federalismo esattamente come a un modo per unire, in una dimensione superiore alla nazione, popoli diversi. Si partiva dal luogo, perché erano democratici quasi più vicini alla democrazia diretta che a quella rappresentativa; si partiva dalla vita della città o della propria regione, per potere interagire con gli altri e vivere una dimensione quasi cosmopolita, universale. Quindi il federalismo era un modo per ascendere dalla materialità della specifica vita alla dimensione generale, astratta o universale. Oggi avviene l’opposto: il federalismo viene rivendicato per andare giù, per togliersi da questa dimensione, e tornare al particolare della vita, a quella vita del quotidiano, alla vitalità del luogo, dell’etnia, più o meno inventata non importa.
Il paradosso è che anche le categorie dovrebbero essere riscritte, perché questi comunitari del possesso usano le nostre stesse categorie, ma le declinano in tutt’altro modo. La parola federalismo usata da loro non ha nulla a che vedere con quella che usava un illuminista. La parola libertà nemmeno: quando usano la parola libertà, loro intendono “la libertà nostra”.
Questo rovesciamento dei valori, per cui le stesse parole non significano le stesse cose, è parte di questo grosso problema.
Ecco perché chi ha una cultura liberale e democratica si sente senza linguaggio, perché oggi le sue parole non verrebbero capite, verrebbero stravolte. Tu parli dei diritti? “Ah, ma io sono a favore dei diritti...”. Vogliamo la scuola... “Ah, ma io sono a favore delle nostre scuole...”. Tu credi che la Lega, se vince in Emilia-Romagna, voglia togliere le scuole materne pubbliche? “Per carità di Dio, gli asili vanno bene, sono i nostri servizi sociali”... i nostri, i nostri... “Anzi, li vogliamo perfezionare, li vogliamo rendere ancora più belli, purché siano nostri!”.
Quindi si appropriano di parole, conferendo loro un significato diverso, e noi, quelli che hanno idee ancora universaliste, nonostante tutto, facciamo fatica, perché ogni volta dobbiamo specificare, fare uno sforzo doppio, quasi meta-linguistico, perché prima di parlare abbiamo bisogno di premettere: “Io intendo questo” quando uso questa parola. Ma così si perde il senso della comunanza della parola, la grammatica comune si rompe. Se dobbiamo discutere delle parole che usiamo prima di cominciare a parlare, finisce che smettiamo di parlare. Non c’è più accesso alla discussione, perché il linguaggio, la grammatica, la sintassi, cioè le regole della discussione, sono possedute da quel particolare di vita, da quella materialità che è loro. Ripeto, si è erosa quella dimensione astratta, quella dimensione universale nella quale tutti potevano entrare. E’ debilitata la dimensione dell’impersonale, quella di cui parlava Rousseau: la cittadinanza fuori e sopra la nazione, la cittadinanza non nazionalistica, non etnica; l’essere cittadini al di là dell’essere individui privati.
Beh, è in discussione la concezione della democrazia. Anche Habermas è sotto accusa in questo momento. Quando lui comincia a parlare di religione, che è necessaria e utile, e quasi accetta l’osservazione di Böckenförde per cui i paesi liberaldemocratici, o gli Stati liberal democratici, non avendo in sé l’energia per riprodurre i proprio valori, devono andare a prestito dalla religione, per esempio, perché la religione crea solidarietà, mentre la legge no... E allora, tu dici “la colpa è della sinistra”.
Mah, il fatto è che quando sono state scritte le Costituzioni, tra il ‘46 e il ‘48, in Italia, in Germania ecc., i teorici della democrazia, da Aron al nostro Bobbio, avevano il terrore di sostanzializzare i valori politici, proprio perché venivano da una ipersostanzializzazione: lo Stato etico trasformato in Stato totalitario. Per cui c’è stato un ritirarsi dell’etica, e le norme, le regole, l’imparzialità dei processi, sono diventate il luogo di libertà. Questo è stato la creazione degli Stati democratici in Europa. Evidentemente queste norme non sono però capaci di creare l’etica. C’è dunque una responsabilità nella teoria moderna della democrazia, in questo fissarsi esclusivamente sulle procedure, le norme e le regole, senza la dovuta e necessaria attenzione alla dimensione etica della democrazia, all’ethos della democrazia, appunto. Ha un ethos, la democrazia? Aron e Bobbio credevano che non ce l’avesse, perché la democrazia era appunto le regole del gioco, un sistema per risolvere i problemi in una dimensione di decisioni collettive: ci mettiamo insieme e per risolvere usiamo le regole democratiche, ovvero il voto, la maggioranza e minoranza, ecc. La democrazia non aveva valore sostanziale, se non per questo: rendeva possibile la pace (che è certo un valore di grande sostanza!). In fondo la battuta di Churchill - la democrazia è il migliore dei peggiori governi - è diventata il modo di dire di tutti, fino allo stesso Rawls.
Quindi c’è questo aspetto negativo incorporato nella democrazia: noi non possiamo farne a meno, però dobbiamo riconoscere che non è il migliore governo possibile, perché dovrebbe governare la competenza, non il numero. Questa è una lacuna profonda del pensiero democratico, che non ha saputo dare a se stesso qualcosa di più.
Habermas è forse il solo ad aver fatto un tentativo in questa direzione, peraltro in modo egregio, però affidandosi di fatto alla ragione razionalista: non solo la norma, ma il dialogo razionale. E’ la lingua ad unirci, a consentirci di dirimere le controversie. E’ questo elemento razionale che è dentro la lingua, il linguaggio, che ci consente di dialogare. Tuttavia questo funziona, se, come abbiamo detto prima, c’è un consenso sulla lingua e sull’uso della grammatica e delle parole, cioè se siamo nella stessa famiglia che parla; se, infine, non abbiamo ideologie forti che ci oscurano la capacità razionale e la possibilità di riconoscere che abbiamo sbagliato e di cambiare idea.
Secondo Habermas la parola, al di là dei diversi linguaggi, è la struttura normativa che unifica il mondo umano, tutti i parlanti, a prescindere dalla lingua che pratichiamo. Il linguaggio ci unisce anche quando abbiamo lingue diverse. Habermas ci credeva perché era un illuminista. Era molto diffidente sulla ricerca di una dimensione etica. Per esempio, non ha mai accettato il repubblicanesimo, perché lo ha identificato col civismo, col mito della virtù, e però... Però forse è necessaria un’addizionale. Probabilmente la democrazia va anche insegnata, non soltanto praticata. Ci sono dei valori che vanno insegnati. I valori dell’uguaglianza, per esempio, di cui oggi nessuno vuol più sentire parlare…
Forse, e tu lo dici da un po’, la democrazia rappresentativa non può fare a meno della vitalità associazionistica...
Certo, la società civile è importante perché come sappiamo l’associazionismo garantisce il pluralismo. Però, anche in questo caso, il quadro universalistico resta decisivo. Perché se queste realtà non sono interpretate all’interno di una dimensione generale, universale, si rischia una forma di neomedievalismo, un pluralismo normativo in relazione al quale l’uguaglianza perde di rilevanza, poiché ci sono associazioni che hanno più peso e altre che ne hanno meno, e poi all’interno di ciascuna ci sono associati che hanno più potere e altri meno, e poi c’è chi usa le associazioni per difendere ciò che ha. Senza una dimensione della legge generale o statale, l’associazionismo -e Tocqueville lo diceva molto bene- diventa il luogo per la libertà (solo) di alcuni.
Comunque è riduttivo dire che viviamo in un momento di reazione anti-moderna perché rischiamo di non vedere bene il pericolo. Un conto è la reazione contro l’universalismo quando l’universalismo non c’è ancora: dopo la Rivoluzione francese, la reazione, la restaurazione contro i lumi, è la restaurazione di pochi, di una minoranza. Dov’era l’universalismo in quel tempo? Non nelle leggi e nella società, ancora. Lo stesso liberalismo era essenzialmente quello dei proprietari.
Tutt’altra cosa è una reazione contro l’universalismo da parte di coloro che godono dell’universalismo dei diritti. In questo caso, è come un essere reazionari in un mondo di libertà, che ha la libertà. Nel 1815, la libertà dov’era? Quella che portava Napoleone, d’accordo, ma era pur sempre una libertà imposta e della quale godevano gruppi ristretti. Oggi invece c’è la libertà di milioni di persone, che hanno uguali diritti. E’ in questa situazione che noi abbiamo una reazione contro l’universalismo: ecco perché parlo di figure dispotiche in democrazia. Perché una massa di individui, che sono uguali per legge e sono uguali anche nelle opportunità di scambio, di acquisto, di possesso, pensano di costruire la “repubblica degli uguali” tra loro. Il loro universalismo si chiude a quello degli altri e diventa veramente la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio. A rigore bisogna allora parlare di reazione contro i principi democratici all’interno di un mondo che è democratico.
Così la libertà, ma anche l’asilo nido, diventano privilegi...
Diventa tutto patrimonio degli uguali, di “noi”. E’ proprio la democrazia dispotica di cui parlava Tocqueville alla fine di Democrazia in America. Si mette un po’ di filo spinato intorno e si dice: noi siamo gli uguali e dobbiamo difendere questa nostra uguaglianza. E’ il modello spartano, il modello degli uguali, la democrazia dei molti ma non di tutti, la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio, di cui Tocqueville aveva terrore. Quindi non è che noi non saremo più liberi, non è che noi perderemo la libertà, no, no, noi compreremo, venderemo, accenderemo il nostro computer, vivremo uniti, usciremo di sera senza incorrere in alcun coprifuoco. Ma sarà una libertà nostra, appunto, una libertà tra noi, chiusa agli altri. Quindi l’Europa, che è fatta di democrazie fondate sulla “nazione”, quindi già limitate nella loro espansione, si chiuderà ancora di più per conservare quella libertà formatasi nella cultura universalista, che ora viene rigettata.
Certo, quando tu separi la libertà dall’uguaglianza, la libertà diventa un privilegio. Ma quando i leghisti “conquistano” queste terre, mica si propongono di diminuire le libertà o di togliere dei benefici sociali. No, no, semmai li vogliono rafforzare, ma saranno le “loro” libertà, i “loro” benefici. E chi è fuori è fuori. Quando la libertà viene dissociata dall’uguaglianza, dall’universalismo, si crea una trasformazione del diritto in privilegio.
Tutto va in questa direzione ed è veramente una cultura egemonica di destra in tutti i sensi. La destra, in fondo, a partire dalla Rivoluzione francese, ha sempre osteggiato l’uguaglianza, come ha ben mostrato Bobbio. Il problema è questo: non è che ci tolgano la libertà, quello che ci tolgono è l’uguale libertà, per cui, ad esempio, i poveri tra un po’ verranno visti come tali. D’altra parte cos’è la carta sociale, la social card, istituita da questo governo? Io la chiamo “carta di povertà”, perché bisogna chiamare le cose col loro nome. A prescindere dal fatto provato che non ha funzionato anche per mancanza di finanziamenti, la carta di povertà è una certificazione di chi è povero; “fa vedere” il povero quando ne fa oggetto di carità pubblica. La verità è che quando si rompe il fronte dell’uguaglianza non si sa più dove si finisce. I bambini che vengono cacciati dalla mensa, perché poveri, sono una conseguenza molto eloquente di un rovesciamento della democrazia. L’universalità di cittadinanza serve appunto a eliminare lo stigma, a farci sentire uguali. Il sentimento dell’autostima, del sentirsi uguali, è potentissimo perché genera il senso della dignità. Ma quando tu umilii una persona davanti agli altri, quando trasformi la sua specificità o la sua difficoltà in un fatto discriminante, di ineguaglianza, allora l’altro si sente un inferiore, un poveraccio. Ma attenzione, perché se si interrompe l’uguaglianza una volta, la si interrompe sempre. Non è che si possa dire: ci fermiamo qui, perché quando la logica della esclusione e della discriminazione è entrata nella pratica pubblica, allora ci sarà sempre una ragione per applicarla.
Ecco perché le nostre società sono anche reazionarie oltre che conservatrici: perché partono con una limitazione dell’uguaglianza, ma poi continuano per arrivare al governo dei pochi lungo un percorso che pensa di limitare la libertà a “noi” soltanto.
Si dice spesso che questa è una ”democrazia autoritaria”. Ma non esiste una democrazia autoritaria. Gli autoritari se ne vogliono impossessare per poi trasformarla in qualcos’altro, che è il governo oligarchico.
Per questo l’uguaglianza è un principio fon-da-men-ta-le per la democrazia. Si dice: “No, lo è più la libertà”. Io non condivido questa priorità della libertà. Bobbio aveva perfettamente ragione: “Guai a pensare che una possa stare senza l’altra”. Si chiamano infatti uguali libertà: c’è un primato di entrambe oppure entrambe vengono a cadere. L’uguaglianza, diceva Condorcet, è un diritto fondamentale, è sbagliato considerarlo come uno strumento; è il diritto degli esseri umani, tutti, di appartenere allo stesso gruppo umano, di chiamarsi “esseri umani”, è la dichiarazione di unità degli esseri umani. Questa è l’uguaglianza: io ho il diritto di essere uguale a te.
Invece adesso c’è una reinterpretazione dell’uguaglianza, scritta all’interno, appunto, delle comunità specifiche. Questa traiettoria può portare alla distruzione della democrazia. Quindi il “dispotismo” dei molti è un passo in un movimento che va in direzione opposta: verso una società oligarchica, in cui i pochi, quelli che hanno più possesso, più uguaglianza tra loro, riusciranno ad avere il potere sugli altri.
In sostanza è davvero una fase di reazione contro la democrazia, se per democrazia si intende l’uguale libertà e l’universalismo che ci consente, con la cittadinanza, di trascendere la nostra vita specifica locale, quotidiana, economica, sociale, e di sentirci cittadini uguali. Perché anche il sentire è importante; se non ti senti inferiore a nessuno, e nessuno ti fa sentire inferiore, l’essere non ricco non ti fa sentire perdente; l’orgoglio della cittadinanza democratica è psicologicamente, oltre che eticamente, liberante. E’ un orgoglio buono.
(26 maggio 2010)
da "Una città", n. 174, maggio 2010, via Eddyburg.it
Diritti, cittadinanza, lingua, religione, tutto diventa patrimonio etnico di una maggioranza che decide chi potrà accedere ai diritti e chi no; la novità di una reazione identitaria, comunitaria, che si combina con l’accettazione piena del liberismo economico; in Europa un attacco antilluministico senza precedenti.
In tutta Europa avanzano partiti xenofobi. Da quel che abbiamo capito tu sei molto pessimista e preoccupata. Cosa sta succedendo?
Mi sembra che sia in corso una trasformazione della democrazia in Europa, non solo in Italia. Stiamo assistendo al declino delle filosofie universalistiche, ma, paradossalmente, non in filosofia, bensì in politica. Nelle accademie le filosofie universalistiche sono egemoni. Ci sono certo stati revisioni e adattamenti; tentativi di armonizzare conoscenza locale e universale, multiculturalismo e liberalismo. Per esempio dopo più di vent’anni di fruttuoso dibattito, i comunitari hanno stemperato le loro posizioni particolaristiche. Del resto, non bisogna dimenticare che le filosofie più attraenti, diciamo più in vista, sono quelle legate a visioni universali della natura umana, all’idea di flourishing, di benessere della persona: pensiamo a Marta Nussbaum o Amartya Sen. Quindi c’è un quadro teorico ben strutturato in chiave universalista.
Ma questo riguarda l’accademia, è contenuto nei libri che leggiamo; che leggono pochissime persone. Se usciamo da questo gruppo ristretto e anche specialistico, vediamo uno scenario molto diverso. Nella realtà quotidiana nella quale viviamo, per esempio nell’Occidente europeo, sembra che si stiano verificando cose completamente diverse: l’universalismo è sotto attacco. Qui l’idea di uguali diritti è sotto processo, la stessa idea di integrazione europea come una grande casa comune di liberi e diversi è a rischio, almeno sotto il profilo ideologico. Le regole ci sono ancora, certamente; la moneta unica c’è ancora (benché sotto tiro del capitale finanziario globale), le istituzioni che presidiano i diritti e l’eguaglianza, come la Corte, ci sono ancora; però quello che viene avanti con sistematica tenacia, a livello nazionale degli Stati membri, è un attacco frontale all’universalismo, ai diritti individuali, all’idea di persona scorporata da ogni identità locale. Nel mondo della vita concreta delle nostre società c’è una rinascita del comunitarismo, di un comunitarismo etnico, radicato in presunte tradizioni, pre-politico. L’abbiamo visto nelle ultime elezioni in Ungheria, nella civilissima Olanda, poi in Italia, in Polonia: ci sono fenomeni che vanno esattamente verso una disgregazione delle grandi costruzioni post-nazionali nate in nome di ideali universalistici di pace, di unificazione, di cosmopolitismo, di inclusione. Le nostre Costituzioni, le carte dei diritti, le convenzioni internazionali, l’Unione Europea, sono nate proprio in reazione e per opporsi alle esperienze totalitarie fasciste, che erano e sono profondamente identitarie.
Sì, è vero che, nel caso di quei totalitarismi, più che un’etnia c’era un’ideologia invadente e potentissima che esaltava un ordine nel quale il partito era integrato allo Stato; tuttavia, il totalitarismo, il nazionalismo fascista erano comunque forme anti-illuministe, anti-individualiste (se dell’individualismo abbiamo una visione liberale), senza meno. Le nostre Costituzioni sono nate proprio per proteggerci da queste orrende cose.
Ora, questo che accade sotto i nostri occhi ci dice invece che non siamo per niente protetti, che queste carte costituzionali non ci proteggono abbastanza, perché forse nel frattempo non si è voluto curare il male profondo che c’era all’origine, che sono i fondamenti culturali dell’ideologia identitaria delle democrazie europee; vizi che non si sono mai corretti, mai sciolti, mai emendati. Le nostre democrazie europee sono nate su un elemento identitario. La nazione per tanto tempo ha avuto una funzione democratica, emancipatrice, “una nazione di cittadini”, come dice Habermas, e non di membri. Benissimo. Però in situazioni come questa, forse per ragioni che gli economisti, i sociologi e i pubblicisti dovrebbero analizzare (cioè per cause economiche, di declino del benessere), assistiamo a una rilettura della nazione in chiave etnica.
I diritti diventano un patrimonio etnico?Esattamente: è l’identificazione della libertà, e quindi dei diritti, col possesso; il possesso del suolo, il possesso di una cultura, il possesso di una lingua, il possesso di una religione. Ora, l’idea di possesso, l’idea, cioè, di essere noi i possessori legittimi di quella che chiamiamo la nostra terra, la nostra nazione, la nostra stessa Costituzione, ci induce a leggere i diritti non come uno strumento che stempera questo istintivo possessivismo che esiste nella nostra storia, ma che invece lo fagocita. Quando si vogliono tener fuori gli immigrati, non li si vuole solo tener fuori fisicamente dai nostri confini (spesso vengono in realtà accettati), ma li si vuole tener fuori anche quando sono dentro, quando vivono sotto le nostre leggi e pagano come noi le tasse; li si vuole escludere dalla cittadinanza attiva, da una democrazia attiva. E perché? Perché, si sente dire sempre più spesso, i diritti appartengono a noi.
Ma stiamo attenti, perché queste nuove forme di pensiero comunitario o anti-illuminista non sono un ritorno indietro. I comunitari etnici di oggi non vogliono ritornare a vivere come si viveva prima della società di mercato, prima della rivoluzione, prima, prima... Non ci pensano nemmeno: questi amano la tecnologia, sono figli del nostro tempo, non rifiutano per niente il liberalismo economico, non rifiutano per niente il mercato. E così si crea un’alleanza anche stretta fra queste forme, che sembrano retrograde, e le forme più avanzate di tecnologia e di cultura politica come il liberalismo, per esempio. Questo connubio non appartiene alle forme di comunitarismo del passato o alla tradizione antilluministica classica, è nuovo.
Si è detto anche che i diritti li si deve meritare…Sì, e francamente di tutta questa grande manfrina che si è fatta sul merito non se ne può più. Sembra che tu il merito ce l’abbia dalla nascita, che non sia, cioè, qualcosa di costruito, di situato in una società, secondo le capacità di cui la società ha bisogno, dei criteri di valutazione in base all’utile sociale. Oggi c’è l’idea che tu devi meritare le cose che hai senz’altra specificazione. Ma ci sono cose che, meritate o no, le hai, punto e basta. Tu hai dei diritti perché sei un essere umano, non devi meritarteli. Questa è la tradizione del mondo occidentale, dalla Rivoluzione francese in poi, questo è il punto fondamentale della nostra politica, che si chiama Stato costituzionale, Stato di diritto, eccetera. Oggi, invece, con questa idea di nazione non più legata alla legalità, al diritto, ma all’etnia, all’identità culturale, una maggioranza potrà decidere se tu ti meriti o non ti meriti un diritto, se tu potrai appartenere al gruppo che detiene i diritti o no.
E’ una concezione da democrazia “maggioritaristica”, in fondo dispotica, in cui il gruppo di maggioranza decreta se gli altri meritano di accedere alla stessa mensa o se dovranno restar separati.
La stessa religione entra a far parte dei possedimenti…
Ma la religione non è “possedere” una fede o una tradizione, ma “credere”, esercitare una libertà di credere. Dice Tocqueville: “Solo i popoli liberi hanno fede”. Gli altri non hanno fede, perché la fede è uno degli atti più liberi: diversamente c’è ipocrisia, la negazione della fede. C’è libertà di religione non solo per consentire agli altri di esistere, ma per consentire a te di esprimere la tua fede. La fede non è una cosa che possiedi, è un esercizio, un’espressione, una pratica, quindi hai bisogno di un diritto. Invece no, sembra che oggi la fede non sia più fede, ma essenzialmente religione costituita: noi la possediamo, questa è la nostra, gli altri possiedono la loro e devono star fuori, perché altrimenti ce la contaminano. L’idea sempre più diffusa, che fa veramente paura, è quella del possesso dei diritti.
Ma questo possesso, ed è qui il problema secondo me su cui bisognerebbe lavorare molto, non è -lo ripeto- necessariamente in contraddizione con la modernità e le forme estreme di liberalismo. Quando dico forme estreme di liberalismo intendo quelle che insistono molto sul successo, sulla capacità di fare, di costruire, di produrre, di accumulare, che è una capacità che tu hai in un mercato libero, in una società che si basa sullo scambio.
Ricordo un libro molto bello, forse meritevole di rilettura, di Macpherson, Possessive liberalism. Ecco, oggi assistiamo alla coniugazione tra un liberalismo possessivo, basato sull’idea che tu possiedi quello che è l’esito del tuo lavoro, la tua energia, la tua vita, e l’idea di una comunità possessiva a livello comunitario. Questa idea del “possesso” travalica l’economia, per diventare un minimo comune denominatore che può unire tutto. E infatti, fra questi comunitari del possesso, possiamo trovare dei veri e propri fascisti, come in Ungheria, gente che ritorna a dire “il nostro suolo” senza odiare il liberalismo. Questa che sembrava una bestemmia non lo è più.
Ma vedi qualcosa di questo genere anche in Italia?
Certo, l’Italia è un caso esemplare. Si potrebbe pensare che l’alleanza fra Bossi e Berlusconi sia una pura alleanza di governo; io penso invece che la convergenza sia profonda, perché i due movimenti sono legati nella cultura, fondata in entrambi i casi sul possesso.
Nel caso di Bossi, è il possesso del territorio, della lingua, della tradizione, secondo una visione etnica dell’identità, che si crede radicata o si pretende che lo sia, e rispetto alla quale si giudicano gli altri. I leghisti dicono: “la libertà nostra”, quindi una libertà radicata dentro di noi come etnia, non come esseri umani. Dall’altra parte, in una realtà mossa da valori opposti a quelli del radicamento nel suolo (il potere capitalistico è senza patria e non ha alcun radicamento, tanto più se è capitalismo finanziario) ritrovi dominante l’idea del possesso, un possesso strumentalmente funzionale al capitalismo globale: le istituzioni politiche, i diritti, la legge, tutto deve essere funzionale a questo possesso, ed è il possesso che determina il valore.
Berlusconi vuole mutare la Costituzione? Non dobbiamo pensare che sia un pazzo, oppure un vanaglorioso, oppure un tiranno. Forse è tutte queste cose insieme. Ma il suo “volere” ha una logica secondo la quale la dimensione materiale della vita, ovvero i rapporti di potere, di forza, i possessi, gli interessi, devono dettare le leggi e devono plasmare la dimensione istituzionale e normativa.
Quindi quell’idea antica per cui nella democrazia la politica dovesse avere una funzione non strumentale, e anche se, o proprio perché gli interessi si combattono in Parlamento, doveva cercare di mediare; l’idea cioè che ci dovesse essere una dimensione di impersonale separatezza, perché diversamente la legge di natura domina, portando al dominio del più forte; ebbene quell’idea è in declino. Infatti la dimensione impersonale e istituzionale sembra che non abbia più le risorse interne per essere autonoma, e viene quindi fagocitata, presa, rapita, dalla dimensione del possesso, sia esso del territorio, o dell’etnia, oppure del possesso vero, economico. Questo è uno scenario preoccupante, perché significa davvero che la Costituzione legale è il mezzo di quella materiale, affinché quella materiale faccia il suo corso. Quella materiale dice che i rapporti di potere presenti nella società, nell’economia, nella famiglia, invece di essere limitati, stemperati, controllati da un potere superiore, si prendono quel potere superiore e in questo modo si legittimano. Cioè l’abnormal becomes the norm, quello che è anormale si normalizza impossessandosi della legge.
La dimensione della separazione della sfera del possedere o della materialità, da quella della legge o della norma, o della impersonalità, viene così ad erodersi, a scomparire, in alcuni casi. Con nostro grave pericolo, perché è come dire che la vita come è nel presente contingente diventa la norma. Non c’è più una dimensione trascendente, che noi accettiamo e nella quale ci specchiamo come individui. E ritorna buono il detto di De Maistre: “Io non ho mai visto individui, ho visto francesi, tedeschi, italiani...”, cioè ha visto l’immediatezza della specificità, mai l’universalità del “come se”, della norma.
Noi europei, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo lottato per mantenere questo spazio trascendente e simbolico rappresentato dalle norme (che ha preso il nome di cittadinanza) separato dalla vita empirica concreta; lo abbiamo fatto proprio perché, come individui concreti, con una materialità, una locazione o una biografia specifiche, ci possiamo riflettere in quella dimensione universale e sentire che, oltre alla nostra realtà immediata, ce n’è un’altra alla quale apparteniamo e per mezzo della quale ci possiamo relazionare agli altri, a tutti, sia coloro che parlano la nostra lingua sia gli stranieri. Ecco, questa trascendenza rispetto alla vita, alla quotidianità, all’essere come è, nella dimensione di vita irriflessa, pare cadere.
L’idea che vive nella cultura popolare è che chi vince si impossessa delle regole; se abiti questo territorio, immediatamente stabilisci chi è dentro e chi è fuori, stabilisci che tu sei il territorio, te lo prendi, è tuo. Questo io penso che sia spaventoso…
Il federalismo qui diventa qualcosa di molto cupo…
Ma è esattamente l’opposto di quello che pensava chi apparteneva alla tradizione liberal-socialista, o i federalisti di Ventotene. Loro pensavano al federalismo esattamente come a un modo per unire, in una dimensione superiore alla nazione, popoli diversi. Si partiva dal luogo, perché erano democratici quasi più vicini alla democrazia diretta che a quella rappresentativa; si partiva dalla vita della città o della propria regione, per potere interagire con gli altri e vivere una dimensione quasi cosmopolita, universale. Quindi il federalismo era un modo per ascendere dalla materialità della specifica vita alla dimensione generale, astratta o universale. Oggi avviene l’opposto: il federalismo viene rivendicato per andare giù, per togliersi da questa dimensione, e tornare al particolare della vita, a quella vita del quotidiano, alla vitalità del luogo, dell’etnia, più o meno inventata non importa.
Il paradosso è che anche le categorie dovrebbero essere riscritte, perché questi comunitari del possesso usano le nostre stesse categorie, ma le declinano in tutt’altro modo. La parola federalismo usata da loro non ha nulla a che vedere con quella che usava un illuminista. La parola libertà nemmeno: quando usano la parola libertà, loro intendono “la libertà nostra”.
Questo rovesciamento dei valori, per cui le stesse parole non significano le stesse cose, è parte di questo grosso problema.
Ecco perché chi ha una cultura liberale e democratica si sente senza linguaggio, perché oggi le sue parole non verrebbero capite, verrebbero stravolte. Tu parli dei diritti? “Ah, ma io sono a favore dei diritti...”. Vogliamo la scuola... “Ah, ma io sono a favore delle nostre scuole...”. Tu credi che la Lega, se vince in Emilia-Romagna, voglia togliere le scuole materne pubbliche? “Per carità di Dio, gli asili vanno bene, sono i nostri servizi sociali”... i nostri, i nostri... “Anzi, li vogliamo perfezionare, li vogliamo rendere ancora più belli, purché siano nostri!”.
Quindi si appropriano di parole, conferendo loro un significato diverso, e noi, quelli che hanno idee ancora universaliste, nonostante tutto, facciamo fatica, perché ogni volta dobbiamo specificare, fare uno sforzo doppio, quasi meta-linguistico, perché prima di parlare abbiamo bisogno di premettere: “Io intendo questo” quando uso questa parola. Ma così si perde il senso della comunanza della parola, la grammatica comune si rompe. Se dobbiamo discutere delle parole che usiamo prima di cominciare a parlare, finisce che smettiamo di parlare. Non c’è più accesso alla discussione, perché il linguaggio, la grammatica, la sintassi, cioè le regole della discussione, sono possedute da quel particolare di vita, da quella materialità che è loro. Ripeto, si è erosa quella dimensione astratta, quella dimensione universale nella quale tutti potevano entrare. E’ debilitata la dimensione dell’impersonale, quella di cui parlava Rousseau: la cittadinanza fuori e sopra la nazione, la cittadinanza non nazionalistica, non etnica; l’essere cittadini al di là dell’essere individui privati.
Beh, è in discussione la concezione della democrazia. Anche Habermas è sotto accusa in questo momento. Quando lui comincia a parlare di religione, che è necessaria e utile, e quasi accetta l’osservazione di Böckenförde per cui i paesi liberaldemocratici, o gli Stati liberal democratici, non avendo in sé l’energia per riprodurre i proprio valori, devono andare a prestito dalla religione, per esempio, perché la religione crea solidarietà, mentre la legge no... E allora, tu dici “la colpa è della sinistra”.
Mah, il fatto è che quando sono state scritte le Costituzioni, tra il ‘46 e il ‘48, in Italia, in Germania ecc., i teorici della democrazia, da Aron al nostro Bobbio, avevano il terrore di sostanzializzare i valori politici, proprio perché venivano da una ipersostanzializzazione: lo Stato etico trasformato in Stato totalitario. Per cui c’è stato un ritirarsi dell’etica, e le norme, le regole, l’imparzialità dei processi, sono diventate il luogo di libertà. Questo è stato la creazione degli Stati democratici in Europa. Evidentemente queste norme non sono però capaci di creare l’etica. C’è dunque una responsabilità nella teoria moderna della democrazia, in questo fissarsi esclusivamente sulle procedure, le norme e le regole, senza la dovuta e necessaria attenzione alla dimensione etica della democrazia, all’ethos della democrazia, appunto. Ha un ethos, la democrazia? Aron e Bobbio credevano che non ce l’avesse, perché la democrazia era appunto le regole del gioco, un sistema per risolvere i problemi in una dimensione di decisioni collettive: ci mettiamo insieme e per risolvere usiamo le regole democratiche, ovvero il voto, la maggioranza e minoranza, ecc. La democrazia non aveva valore sostanziale, se non per questo: rendeva possibile la pace (che è certo un valore di grande sostanza!). In fondo la battuta di Churchill - la democrazia è il migliore dei peggiori governi - è diventata il modo di dire di tutti, fino allo stesso Rawls.
Quindi c’è questo aspetto negativo incorporato nella democrazia: noi non possiamo farne a meno, però dobbiamo riconoscere che non è il migliore governo possibile, perché dovrebbe governare la competenza, non il numero. Questa è una lacuna profonda del pensiero democratico, che non ha saputo dare a se stesso qualcosa di più.
Habermas è forse il solo ad aver fatto un tentativo in questa direzione, peraltro in modo egregio, però affidandosi di fatto alla ragione razionalista: non solo la norma, ma il dialogo razionale. E’ la lingua ad unirci, a consentirci di dirimere le controversie. E’ questo elemento razionale che è dentro la lingua, il linguaggio, che ci consente di dialogare. Tuttavia questo funziona, se, come abbiamo detto prima, c’è un consenso sulla lingua e sull’uso della grammatica e delle parole, cioè se siamo nella stessa famiglia che parla; se, infine, non abbiamo ideologie forti che ci oscurano la capacità razionale e la possibilità di riconoscere che abbiamo sbagliato e di cambiare idea.
Secondo Habermas la parola, al di là dei diversi linguaggi, è la struttura normativa che unifica il mondo umano, tutti i parlanti, a prescindere dalla lingua che pratichiamo. Il linguaggio ci unisce anche quando abbiamo lingue diverse. Habermas ci credeva perché era un illuminista. Era molto diffidente sulla ricerca di una dimensione etica. Per esempio, non ha mai accettato il repubblicanesimo, perché lo ha identificato col civismo, col mito della virtù, e però... Però forse è necessaria un’addizionale. Probabilmente la democrazia va anche insegnata, non soltanto praticata. Ci sono dei valori che vanno insegnati. I valori dell’uguaglianza, per esempio, di cui oggi nessuno vuol più sentire parlare…
Forse, e tu lo dici da un po’, la democrazia rappresentativa non può fare a meno della vitalità associazionistica...
Certo, la società civile è importante perché come sappiamo l’associazionismo garantisce il pluralismo. Però, anche in questo caso, il quadro universalistico resta decisivo. Perché se queste realtà non sono interpretate all’interno di una dimensione generale, universale, si rischia una forma di neomedievalismo, un pluralismo normativo in relazione al quale l’uguaglianza perde di rilevanza, poiché ci sono associazioni che hanno più peso e altre che ne hanno meno, e poi all’interno di ciascuna ci sono associati che hanno più potere e altri meno, e poi c’è chi usa le associazioni per difendere ciò che ha. Senza una dimensione della legge generale o statale, l’associazionismo -e Tocqueville lo diceva molto bene- diventa il luogo per la libertà (solo) di alcuni.
Comunque è riduttivo dire che viviamo in un momento di reazione anti-moderna perché rischiamo di non vedere bene il pericolo. Un conto è la reazione contro l’universalismo quando l’universalismo non c’è ancora: dopo la Rivoluzione francese, la reazione, la restaurazione contro i lumi, è la restaurazione di pochi, di una minoranza. Dov’era l’universalismo in quel tempo? Non nelle leggi e nella società, ancora. Lo stesso liberalismo era essenzialmente quello dei proprietari.
Tutt’altra cosa è una reazione contro l’universalismo da parte di coloro che godono dell’universalismo dei diritti. In questo caso, è come un essere reazionari in un mondo di libertà, che ha la libertà. Nel 1815, la libertà dov’era? Quella che portava Napoleone, d’accordo, ma era pur sempre una libertà imposta e della quale godevano gruppi ristretti. Oggi invece c’è la libertà di milioni di persone, che hanno uguali diritti. E’ in questa situazione che noi abbiamo una reazione contro l’universalismo: ecco perché parlo di figure dispotiche in democrazia. Perché una massa di individui, che sono uguali per legge e sono uguali anche nelle opportunità di scambio, di acquisto, di possesso, pensano di costruire la “repubblica degli uguali” tra loro. Il loro universalismo si chiude a quello degli altri e diventa veramente la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio. A rigore bisogna allora parlare di reazione contro i principi democratici all’interno di un mondo che è democratico.
Così la libertà, ma anche l’asilo nido, diventano privilegi...
Diventa tutto patrimonio degli uguali, di “noi”. E’ proprio la democrazia dispotica di cui parlava Tocqueville alla fine di Democrazia in America. Si mette un po’ di filo spinato intorno e si dice: noi siamo gli uguali e dobbiamo difendere questa nostra uguaglianza. E’ il modello spartano, il modello degli uguali, la democrazia dei molti ma non di tutti, la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio, di cui Tocqueville aveva terrore. Quindi non è che noi non saremo più liberi, non è che noi perderemo la libertà, no, no, noi compreremo, venderemo, accenderemo il nostro computer, vivremo uniti, usciremo di sera senza incorrere in alcun coprifuoco. Ma sarà una libertà nostra, appunto, una libertà tra noi, chiusa agli altri. Quindi l’Europa, che è fatta di democrazie fondate sulla “nazione”, quindi già limitate nella loro espansione, si chiuderà ancora di più per conservare quella libertà formatasi nella cultura universalista, che ora viene rigettata.
Certo, quando tu separi la libertà dall’uguaglianza, la libertà diventa un privilegio. Ma quando i leghisti “conquistano” queste terre, mica si propongono di diminuire le libertà o di togliere dei benefici sociali. No, no, semmai li vogliono rafforzare, ma saranno le “loro” libertà, i “loro” benefici. E chi è fuori è fuori. Quando la libertà viene dissociata dall’uguaglianza, dall’universalismo, si crea una trasformazione del diritto in privilegio.
Tutto va in questa direzione ed è veramente una cultura egemonica di destra in tutti i sensi. La destra, in fondo, a partire dalla Rivoluzione francese, ha sempre osteggiato l’uguaglianza, come ha ben mostrato Bobbio. Il problema è questo: non è che ci tolgano la libertà, quello che ci tolgono è l’uguale libertà, per cui, ad esempio, i poveri tra un po’ verranno visti come tali. D’altra parte cos’è la carta sociale, la social card, istituita da questo governo? Io la chiamo “carta di povertà”, perché bisogna chiamare le cose col loro nome. A prescindere dal fatto provato che non ha funzionato anche per mancanza di finanziamenti, la carta di povertà è una certificazione di chi è povero; “fa vedere” il povero quando ne fa oggetto di carità pubblica. La verità è che quando si rompe il fronte dell’uguaglianza non si sa più dove si finisce. I bambini che vengono cacciati dalla mensa, perché poveri, sono una conseguenza molto eloquente di un rovesciamento della democrazia. L’universalità di cittadinanza serve appunto a eliminare lo stigma, a farci sentire uguali. Il sentimento dell’autostima, del sentirsi uguali, è potentissimo perché genera il senso della dignità. Ma quando tu umilii una persona davanti agli altri, quando trasformi la sua specificità o la sua difficoltà in un fatto discriminante, di ineguaglianza, allora l’altro si sente un inferiore, un poveraccio. Ma attenzione, perché se si interrompe l’uguaglianza una volta, la si interrompe sempre. Non è che si possa dire: ci fermiamo qui, perché quando la logica della esclusione e della discriminazione è entrata nella pratica pubblica, allora ci sarà sempre una ragione per applicarla.
Ecco perché le nostre società sono anche reazionarie oltre che conservatrici: perché partono con una limitazione dell’uguaglianza, ma poi continuano per arrivare al governo dei pochi lungo un percorso che pensa di limitare la libertà a “noi” soltanto.
Si dice spesso che questa è una ”democrazia autoritaria”. Ma non esiste una democrazia autoritaria. Gli autoritari se ne vogliono impossessare per poi trasformarla in qualcos’altro, che è il governo oligarchico.
Per questo l’uguaglianza è un principio fon-da-men-ta-le per la democrazia. Si dice: “No, lo è più la libertà”. Io non condivido questa priorità della libertà. Bobbio aveva perfettamente ragione: “Guai a pensare che una possa stare senza l’altra”. Si chiamano infatti uguali libertà: c’è un primato di entrambe oppure entrambe vengono a cadere. L’uguaglianza, diceva Condorcet, è un diritto fondamentale, è sbagliato considerarlo come uno strumento; è il diritto degli esseri umani, tutti, di appartenere allo stesso gruppo umano, di chiamarsi “esseri umani”, è la dichiarazione di unità degli esseri umani. Questa è l’uguaglianza: io ho il diritto di essere uguale a te.
Invece adesso c’è una reinterpretazione dell’uguaglianza, scritta all’interno, appunto, delle comunità specifiche. Questa traiettoria può portare alla distruzione della democrazia. Quindi il “dispotismo” dei molti è un passo in un movimento che va in direzione opposta: verso una società oligarchica, in cui i pochi, quelli che hanno più possesso, più uguaglianza tra loro, riusciranno ad avere il potere sugli altri.
In sostanza è davvero una fase di reazione contro la democrazia, se per democrazia si intende l’uguale libertà e l’universalismo che ci consente, con la cittadinanza, di trascendere la nostra vita specifica locale, quotidiana, economica, sociale, e di sentirci cittadini uguali. Perché anche il sentire è importante; se non ti senti inferiore a nessuno, e nessuno ti fa sentire inferiore, l’essere non ricco non ti fa sentire perdente; l’orgoglio della cittadinanza democratica è psicologicamente, oltre che eticamente, liberante. E’ un orgoglio buono.
(26 maggio 2010)
venerdì, maggio 28, 2010
Un grande evento per la città di Roma e per l'Italia
ARTE
I nuovi musei Maxxi e Macro
il grande show del contemporaneo
C´è tutto il mondo dell'arte a Roma nei tre giorni in cui aprono i due spazi realizzati da Zaha Hadid e Odile Decq. Da venerdì 28 a domenica 30, mostre e inaugurazioni, cene private e cocktail
di FRANCESCA GIULIANI (La Repubblica)
Non è ancora chiaro se Odile Decq, l´architetta parigina che ha immaginato e poi, nell´arco di un decennio, realizzato l´ampliamento del Macro di via Reggio Emilia, si incontrerà con Zaha Hadid, la mente che ha generato il Maxxi, museo per le arti del XXI secolo di via Guido Reni. Di sicuro c´è che saranno loro le protagoniste dell´inaugurazione dei due nuovi musei, in una tre giorni che mobilita per intero il mondo dell´arte romana e internazionale. Al Maxxi sono cinquemila gli invitati venerdì 28, quindicimila gli ingressi gratuiti (esauriti on line) di sabato 29, più tutti coloro i quali potranno entrare pagando il normale biglietto da domenica 30 maggio (10 mila al giorno). Al Macro dichiarano di voler stare "sottotraccia" proponendo due giorni di open view agli spazi architettonici della Decq, ma sempre su invito. Intanto, in queste ore, le due grandes dames arrivano a Roma, per ritrovarsi proiettate in un circuito di vernissage, cene, serate e inaugurazioni varie che naturalmente comprende anche la fiera Road to Contemporary Art a Testaccio.
Apre le danze il Maxxi con un incontro stampa colossale giovedì mattina a cui sono attesi oltre mille giornalisti, ma non sarà presente il ministro Matteoli (è all´estero) né ha confermato Bondi mentre è ormai certa la presenza, in visita privata, del Presidente Giorgio Napolitano. Venerdì 28 maggio a partire dalle 19.30 e fino a notte fonda cocktail e musica per i cinquemila che hanno già il cartoncino d´invito, mentre altrettanti stanno tentando in ogni modo di aggiungersi alle liste degli ospiti. Intanto, sono in via conclusione gli allestimenti delle mostre che per la prima volta mettono davvero alla prova dell´arte gli immensi spazi della Hadid. Come "Gino De Domincis - L´Immortale" a cura di Achille Bonito Oliva, con lavori anche immensi come la "Calamita Cosmica"; a seguire, Kutlug Ataman; la mostra "Spazio" con opere dalla collezione del Museo e, per la sezione architettura, Luigi Moretti architetto. L´intero museo sarà completamente allestito. Tra gli invitati molto cinema, da Sorrentino e Garrone a Laura Morante, e tanti artisti, da Vezzoli a Penone alla Toderi, a Maurizio Mochetti, poi i costruttori, gli sponsor, i prestatori.
Di là dal quartiere Pinciano, a poco più di quattro chilometri di distanza, giovedì 27 (dalle 14 alle 18) una inaugurazione istituzionale cittadina per i nuovi spazi del Macro, visitabili anche l´indomani (9-18): un dedalo di 10mila metri quadri di museo nuovo di zecca a cui il pubblico potrà accedere anche l´indomani, venerdì 28 (su invito, orario 9-18) e poi il 29 e 30 prenotando sul sito www.macroeventi.org (45 minuti a visita). Venerdì sera sono un centinaio gli invitati al dîner noir di Odile Decq, dove sono attesi curatori dal Louvre e dal Beaubourg, gente di cinema e architetti. Nell´ala "vecchia" della ex Birreria Peroni, dal 1 giugno le mostre presentate dal direttore del museo, Luca Massimo Barbero, che proseguiranno per l´estate. Gli spazi della Decq chiuderanno per il completamento del cantiere; a fine anno l´apertura definitiva.
25 maggio 2010
ARTE
I nuovi musei Maxxi e Macro
il grande show del contemporaneo
C´è tutto il mondo dell'arte a Roma nei tre giorni in cui aprono i due spazi realizzati da Zaha Hadid e Odile Decq. Da venerdì 28 a domenica 30, mostre e inaugurazioni, cene private e cocktail
di FRANCESCA GIULIANI (La Repubblica)
Non è ancora chiaro se Odile Decq, l´architetta parigina che ha immaginato e poi, nell´arco di un decennio, realizzato l´ampliamento del Macro di via Reggio Emilia, si incontrerà con Zaha Hadid, la mente che ha generato il Maxxi, museo per le arti del XXI secolo di via Guido Reni. Di sicuro c´è che saranno loro le protagoniste dell´inaugurazione dei due nuovi musei, in una tre giorni che mobilita per intero il mondo dell´arte romana e internazionale. Al Maxxi sono cinquemila gli invitati venerdì 28, quindicimila gli ingressi gratuiti (esauriti on line) di sabato 29, più tutti coloro i quali potranno entrare pagando il normale biglietto da domenica 30 maggio (10 mila al giorno). Al Macro dichiarano di voler stare "sottotraccia" proponendo due giorni di open view agli spazi architettonici della Decq, ma sempre su invito. Intanto, in queste ore, le due grandes dames arrivano a Roma, per ritrovarsi proiettate in un circuito di vernissage, cene, serate e inaugurazioni varie che naturalmente comprende anche la fiera Road to Contemporary Art a Testaccio.
Apre le danze il Maxxi con un incontro stampa colossale giovedì mattina a cui sono attesi oltre mille giornalisti, ma non sarà presente il ministro Matteoli (è all´estero) né ha confermato Bondi mentre è ormai certa la presenza, in visita privata, del Presidente Giorgio Napolitano. Venerdì 28 maggio a partire dalle 19.30 e fino a notte fonda cocktail e musica per i cinquemila che hanno già il cartoncino d´invito, mentre altrettanti stanno tentando in ogni modo di aggiungersi alle liste degli ospiti. Intanto, sono in via conclusione gli allestimenti delle mostre che per la prima volta mettono davvero alla prova dell´arte gli immensi spazi della Hadid. Come "Gino De Domincis - L´Immortale" a cura di Achille Bonito Oliva, con lavori anche immensi come la "Calamita Cosmica"; a seguire, Kutlug Ataman; la mostra "Spazio" con opere dalla collezione del Museo e, per la sezione architettura, Luigi Moretti architetto. L´intero museo sarà completamente allestito. Tra gli invitati molto cinema, da Sorrentino e Garrone a Laura Morante, e tanti artisti, da Vezzoli a Penone alla Toderi, a Maurizio Mochetti, poi i costruttori, gli sponsor, i prestatori.
Di là dal quartiere Pinciano, a poco più di quattro chilometri di distanza, giovedì 27 (dalle 14 alle 18) una inaugurazione istituzionale cittadina per i nuovi spazi del Macro, visitabili anche l´indomani (9-18): un dedalo di 10mila metri quadri di museo nuovo di zecca a cui il pubblico potrà accedere anche l´indomani, venerdì 28 (su invito, orario 9-18) e poi il 29 e 30 prenotando sul sito www.macroeventi.org (45 minuti a visita). Venerdì sera sono un centinaio gli invitati al dîner noir di Odile Decq, dove sono attesi curatori dal Louvre e dal Beaubourg, gente di cinema e architetti. Nell´ala "vecchia" della ex Birreria Peroni, dal 1 giugno le mostre presentate dal direttore del museo, Luca Massimo Barbero, che proseguiranno per l´estate. Gli spazi della Decq chiuderanno per il completamento del cantiere; a fine anno l´apertura definitiva.
25 maggio 2010
martedì, maggio 25, 2010
Segnalazioni. Da leggere e far circolare!
"Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d.L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50-bis: /Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet;
la prossima settimana Il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60.
Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della"Casta".
In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i /providers/ dovranno bloccare il blog.
Questo provvedimento può far oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all'estero; il Ministro dell'Interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può infatti disporre con proprio decreto l'interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.
L'attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore; la violazione di tale obbligo comporta per i provider una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000.
Per i blogger è invece previsto il carcere da 1 a 5 anni per l'istigazione a delinquere e per l'apologia di reato oltre ad una pena ulteriore da 6 mesi a 5 anni perl'istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all'odio fra le classi sociali.
Con questa legge verrebbero immediatamente ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta !
In pratica il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia Facebook, Youtube e *tutti i blog* che al momento rappresentano in Italia l'unica informazione non condizionata e/o censurata.
Vi ricordo che il nostro è l'unico Paese al mondo dove una /media company/ ha citato YouTube per danni chiedendo 500 milioni euro di risarcimento.
Il nome di questa /media company/, guarda caso, è Mediaset.
Quindi il Governo interviene per l'ennesima volta, in una materia che, del tutto incidentalmente, vede coinvolta un'impresa del Presidente del Consiglio in un conflitto giudiziario e d'interessi.
Dopo la proposta di legge Cassinelli e l'istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al "pacchetto sicurezza" di fatto rende esplicito il progetto del Governo di /normalizzare/ con leggi di repressione internet e tutto il istema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare.
Tra breve non dovremmo stupirci se la delazione verrà premiata con buoni spesa!
Mentre negli USA Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet in Italia il governo si ispira per quanto riguarda la libertà di stampa alla Cina e alla Birmania.
Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati il blog Beppe Grillo e la rivista specializzata Punto Informatico.
Fate girare questa notizia il più possibile per cercare di svegliare le coscienze addormentate degli italiani perché dove non c'è libera informazione e diritto di critica il concetto di democrazia diventa un problema dialettico"
la prossima settimana Il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60.
Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della"Casta".
In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i /providers/ dovranno bloccare il blog.
Questo provvedimento può far oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all'estero; il Ministro dell'Interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può infatti disporre con proprio decreto l'interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.
L'attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore; la violazione di tale obbligo comporta per i provider una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000.
Per i blogger è invece previsto il carcere da 1 a 5 anni per l'istigazione a delinquere e per l'apologia di reato oltre ad una pena ulteriore da 6 mesi a 5 anni perl'istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all'odio fra le classi sociali.
Con questa legge verrebbero immediatamente ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta !
In pratica il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia Facebook, Youtube e *tutti i blog* che al momento rappresentano in Italia l'unica informazione non condizionata e/o censurata.
Vi ricordo che il nostro è l'unico Paese al mondo dove una /media company/ ha citato YouTube per danni chiedendo 500 milioni euro di risarcimento.
Il nome di questa /media company/, guarda caso, è Mediaset.
Quindi il Governo interviene per l'ennesima volta, in una materia che, del tutto incidentalmente, vede coinvolta un'impresa del Presidente del Consiglio in un conflitto giudiziario e d'interessi.
Dopo la proposta di legge Cassinelli e l'istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al "pacchetto sicurezza" di fatto rende esplicito il progetto del Governo di /normalizzare/ con leggi di repressione internet e tutto il istema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare.
Tra breve non dovremmo stupirci se la delazione verrà premiata con buoni spesa!
Mentre negli USA Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet in Italia il governo si ispira per quanto riguarda la libertà di stampa alla Cina e alla Birmania.
Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati il blog Beppe Grillo e la rivista specializzata Punto Informatico.
Fate girare questa notizia il più possibile per cercare di svegliare le coscienze addormentate degli italiani perché dove non c'è libera informazione e diritto di critica il concetto di democrazia diventa un problema dialettico"
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domenica, maggio 23, 2010
Partono i “Mondiali al contrario”. Il Sudafrica in Italia ci insegna la rivolta
di Ilaria Donatio (Micromega)
Chissà cosa penseranno i sudafricani di Abahlali baseMjondolo (‘quelli che vivono nella baracche’, in lingua zulu) delle parole di This time for Africa, l’inno ufficiale della Coppa del Mondo 2010, che si svolgerà in Sudafrica dall’11 giugno all’11 luglio: “Il momento è arrivato, cadono le mura, inizia l’unica battaglia. Non fa male il colpo, non c’è paura, scuotiti la polvere, alzati, e torna sul ring. E la pressione che senti, spera in te, è il tuo popolo!”. Un mix di folk, jazz e blues che canta un inno alla lotta per la liberazione e l’integrazione, tratto da una canzone camerunense, Zamina, riscritta e interpretata dalla cantante colombiana Shakira con l’accompagnamento dei Freshlyground, una band molto conosciuta di Città del Capo.
“Dovrei essere felice perché i mondiali si giocheranno a casa mia e invece non posso esserlo perché la Coppa esclude la maggioranza di noi”, racconta Philani che, insieme a Busisiwe e Thembani, sta attraversando l’Italia per la campagna dei ‘Mondiali al contrario’, promossa dal settimanale Carta insieme a due missionari comboniani di Castel Volturno, Filippo Mondini e Antonio Bonato. Un percorso inverso a quello ufficiale che ha preso il via due giorni fa nella capitale e si concluderà il prossimo 30 maggio.
Da Castel Volturno a Reggio Calabria, da L’Aquila a Chieti, da Pisa a Verona, da Santorso alla vicina Vicenza, da Milano a Varese, e poi a Torino e in Val di Susa, per tornare a Roma: al tour hanno aderito soggetti molto diversi tra loro, come centri sociali, amministrazioni comunali, parrocchie, pro loco e comitati civici. Un programma itinerante, fittissimo di appuntamenti (per conoscerne le tappe: clandestino.carta.org), lungo il quale i tre del movimento Abahlali incontreranno associazioni e singoli cittadini per raccontare che cosa significhi la Coppa del mondo per i sudafricani più poveri, per parlare della loro lotta per terra, case, dignità e democrazia nel Sudafrica post-apartheid, e “ascoltare – a loro volta – il racconto di chi si ostina a immaginare un altro mondo”.
Filippo Mondini è un missionario comboniano laico. Prima di tornare in Italia, a Castel Volturno per la precisione, Filippo ha vissuto per cinque anni in una delle tante baraccopoli, distante una sessantina di chilometri da Durban, nella repubblica sudafricana. Poco prima della partenza per questo ‘viaggio al contrario’, prova a spiegarci l’idea di lotta (“per l’autogoverno e l’autonomia e non per la conquista del potere”) che porta avanti il più grande movimento di impoveriti del paese, Abahlali, che si articola in oltre quaranta insediamenti di molte città – come la stessa Durban, Pinetown, Città del Capo, Pietermaritzburg e Port Shepstone – e dove i baraccati vivono senza acqua e senza elettricità, in condizioni disumane.
Ecco: i mondiali, visti dagli slum sudafricani, non sono affatto un fenomeno sportivo. Migliaia di famiglie sono state sfrattate perché accusate di occupare spazi destinati alla costruzione di nuovi stadi o alla ristrutturazione di quelli vecchi. Un popolo di poveri ambulanti, ragazzi di strada, baraccati sono stati spostati con la forza nei ‘transit camp’, veri campi di reclusione dalle condizioni di vita pessime. Un esercito di invisibili, tenuti alla larga dagli stessi stadi per non ‘sporcare’ i racconti ufficiali di un paese su cui stanno per accendersi le luci dei riflettori di tutto il mondo. È lo stesso Sudafrica che ha vinto l’apartheid, quello di cui parla Filippo, la ‘nazione arcobaleno’ come è stata definita per la sua eterogeneità etnica: ora, è “solo lo Stato più ineguale del mondo”, a causa delle scelte economiche del partito-stato”.
Ma “i senza voce, in realtà, una voce ce l’hanno”, spiega Mondini, “e l’esperienza africana ce lo dimostra: sono un soggetto pensante a differenza di quanto avviene in Italia” ed è la ragione per cui è nato Abahlali. Per smettere di delegare la rappresentanza di alcuni diritti fondamentali, come quello alla salute, al lavoro, ai servizi essenziali. Per scendere in campo e riprendersi la politica, non quella dei potenti, ma quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita. Come spiega un membro del movimento si tratta di “una politica fatta in casa, in modo che ognuno, ogni vecchia signora, ogni giovane, ogni padre di famiglia, riesca a capire. Certo chi non abita nelle baracche può venire e collaborare con noi… ma come servo e non come padrone”. In una frase: l’autogoverno dei poveri.
“Il rischio che corriamo in Italia”, conclude Filippo, “è che la così detta società civile non crei una politica realmente emancipatoria, di cambiamento, ma si limiti a ripiegare su semplici aggiustamenti”. In buona sostanza è quello che Abahlali ha osato dire al ceto politico che lo governa: “Talk with us and not about us!”. Qui, in Italia, dove a settimane alterne “gli operai, per protesta, vanno sui tetti e lottano per il proprio posto di lavoro”, a queste rivendicazioni (“giustissime”), secondo il missionario comboniano, manca un requisito fondamentale per fare di “una rivolta, un evento”: l’universalità.
E la rivolta di Castel Volturno? E quella degli ‘schiavi’ di Rosarno? In entrambi i casi, sono stati “gli immigrati a lottare contro un sistema di sfruttamento che li vessava”. Ma noi “soffochiamo la rivolta, non riusciamo ad ascoltarla”. Perché ci fa paura e non la riconosciamo. Noi, cittadini di una democrazia che funziona perfettamente. Dicono.
(20 maggio 2010)
di Ilaria Donatio (Micromega)
Chissà cosa penseranno i sudafricani di Abahlali baseMjondolo (‘quelli che vivono nella baracche’, in lingua zulu) delle parole di This time for Africa, l’inno ufficiale della Coppa del Mondo 2010, che si svolgerà in Sudafrica dall’11 giugno all’11 luglio: “Il momento è arrivato, cadono le mura, inizia l’unica battaglia. Non fa male il colpo, non c’è paura, scuotiti la polvere, alzati, e torna sul ring. E la pressione che senti, spera in te, è il tuo popolo!”. Un mix di folk, jazz e blues che canta un inno alla lotta per la liberazione e l’integrazione, tratto da una canzone camerunense, Zamina, riscritta e interpretata dalla cantante colombiana Shakira con l’accompagnamento dei Freshlyground, una band molto conosciuta di Città del Capo.
“Dovrei essere felice perché i mondiali si giocheranno a casa mia e invece non posso esserlo perché la Coppa esclude la maggioranza di noi”, racconta Philani che, insieme a Busisiwe e Thembani, sta attraversando l’Italia per la campagna dei ‘Mondiali al contrario’, promossa dal settimanale Carta insieme a due missionari comboniani di Castel Volturno, Filippo Mondini e Antonio Bonato. Un percorso inverso a quello ufficiale che ha preso il via due giorni fa nella capitale e si concluderà il prossimo 30 maggio.
Da Castel Volturno a Reggio Calabria, da L’Aquila a Chieti, da Pisa a Verona, da Santorso alla vicina Vicenza, da Milano a Varese, e poi a Torino e in Val di Susa, per tornare a Roma: al tour hanno aderito soggetti molto diversi tra loro, come centri sociali, amministrazioni comunali, parrocchie, pro loco e comitati civici. Un programma itinerante, fittissimo di appuntamenti (per conoscerne le tappe: clandestino.carta.org), lungo il quale i tre del movimento Abahlali incontreranno associazioni e singoli cittadini per raccontare che cosa significhi la Coppa del mondo per i sudafricani più poveri, per parlare della loro lotta per terra, case, dignità e democrazia nel Sudafrica post-apartheid, e “ascoltare – a loro volta – il racconto di chi si ostina a immaginare un altro mondo”.
Filippo Mondini è un missionario comboniano laico. Prima di tornare in Italia, a Castel Volturno per la precisione, Filippo ha vissuto per cinque anni in una delle tante baraccopoli, distante una sessantina di chilometri da Durban, nella repubblica sudafricana. Poco prima della partenza per questo ‘viaggio al contrario’, prova a spiegarci l’idea di lotta (“per l’autogoverno e l’autonomia e non per la conquista del potere”) che porta avanti il più grande movimento di impoveriti del paese, Abahlali, che si articola in oltre quaranta insediamenti di molte città – come la stessa Durban, Pinetown, Città del Capo, Pietermaritzburg e Port Shepstone – e dove i baraccati vivono senza acqua e senza elettricità, in condizioni disumane.
Ecco: i mondiali, visti dagli slum sudafricani, non sono affatto un fenomeno sportivo. Migliaia di famiglie sono state sfrattate perché accusate di occupare spazi destinati alla costruzione di nuovi stadi o alla ristrutturazione di quelli vecchi. Un popolo di poveri ambulanti, ragazzi di strada, baraccati sono stati spostati con la forza nei ‘transit camp’, veri campi di reclusione dalle condizioni di vita pessime. Un esercito di invisibili, tenuti alla larga dagli stessi stadi per non ‘sporcare’ i racconti ufficiali di un paese su cui stanno per accendersi le luci dei riflettori di tutto il mondo. È lo stesso Sudafrica che ha vinto l’apartheid, quello di cui parla Filippo, la ‘nazione arcobaleno’ come è stata definita per la sua eterogeneità etnica: ora, è “solo lo Stato più ineguale del mondo”, a causa delle scelte economiche del partito-stato”.
Ma “i senza voce, in realtà, una voce ce l’hanno”, spiega Mondini, “e l’esperienza africana ce lo dimostra: sono un soggetto pensante a differenza di quanto avviene in Italia” ed è la ragione per cui è nato Abahlali. Per smettere di delegare la rappresentanza di alcuni diritti fondamentali, come quello alla salute, al lavoro, ai servizi essenziali. Per scendere in campo e riprendersi la politica, non quella dei potenti, ma quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita. Come spiega un membro del movimento si tratta di “una politica fatta in casa, in modo che ognuno, ogni vecchia signora, ogni giovane, ogni padre di famiglia, riesca a capire. Certo chi non abita nelle baracche può venire e collaborare con noi… ma come servo e non come padrone”. In una frase: l’autogoverno dei poveri.
“Il rischio che corriamo in Italia”, conclude Filippo, “è che la così detta società civile non crei una politica realmente emancipatoria, di cambiamento, ma si limiti a ripiegare su semplici aggiustamenti”. In buona sostanza è quello che Abahlali ha osato dire al ceto politico che lo governa: “Talk with us and not about us!”. Qui, in Italia, dove a settimane alterne “gli operai, per protesta, vanno sui tetti e lottano per il proprio posto di lavoro”, a queste rivendicazioni (“giustissime”), secondo il missionario comboniano, manca un requisito fondamentale per fare di “una rivolta, un evento”: l’universalità.
E la rivolta di Castel Volturno? E quella degli ‘schiavi’ di Rosarno? In entrambi i casi, sono stati “gli immigrati a lottare contro un sistema di sfruttamento che li vessava”. Ma noi “soffochiamo la rivolta, non riusciamo ad ascoltarla”. Perché ci fa paura e non la riconosciamo. Noi, cittadini di una democrazia che funziona perfettamente. Dicono.
(20 maggio 2010)
martedì, maggio 18, 2010
sabato, maggio 08, 2010
ALCUNI BAMBINI
Sono perseguitati
(coi soldi pubblici)
perché esistono
di Giacomo Papi (settimanale della Repubblica D)
Amiamo i bambini. Glorifichiamo l’infanzia. E’ una delle poche cose per cui siamo orgogliosi del nostro tempo. Ma è un orgoglio che placa e ci acceca, facendoci distogliere gli occhi. Ciao come stai? Bene! Quanti anni hai? Dieci. Ti piace la scuola? Sì, però mi piace di più la maestra, i compagni, scrivere e matematica. Da grande voglio fare la maestra. Sai leggere? Anche in corsivo. Ma quando sono andata a scuola non sapevo niente di italiano, adesso ho anche amici italiani, delle volte vado a casa loro a giocare. Della Romania non mi ricordo tanto. Sei contenta di essere in Italia? Sì, perché mi date la scuola. Ti piace la TV? Sì, però non ce l’ho. Se avevo una casa guardavo, però non ho.
La baracca di questa bambina è stata resa al suolo dalla polizia all’alba del 19 dicembre 2009, vigilia della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia. Da allora ha dormito in dodici posto diversi, ma ogni volta è stata sgomberata. Oggi vive in una fabbrica abbandonata senza muri, senza soffitto, il pavimento pieno di erbacce e vetri rotti. Nel campo dove viveva, intorno alle ruspe, scorazzavano decine di ratti quasi domestici, ormai abituati all’uomo perché la nettezza urbana per non riconoscere gli abitanti, non è mai arrivata. Per un po’ non ha potuto andare a scuola, poi – grazie alla famiglia, ai volontari della Comunità di Sant’Egidio (santegidio.rubattino@hmail.com) e alle maestre – è tornata. A Milano città i minori in campi abusivi sono circa 300.
In quante scuole sei stata negli ultimi mesi? Due. Perché? Perché hanno sgomberato. Adesso dove dormi? In una tenda che ci ha regalato la maestra. Com’è? E’ grande? E’ verde. Un pochino piccola e un pochino grande. Hai dei giocattoli dentro? No. Mi spieghi com’è uno sgombero? Arriva la polizia nella notte o nella mattina presto, prendono le baracche e ci distruggono le cose, e poi non ci abbiamo dove dormire. Per questo di notte ho sempre paura. Mi hanno portato via anche la mia maglietta della Carica dei 101. Sono gentili i poliziotti? No, lo dicono male che noi andiamo via, urlano le parolacce e hanno i cani che abbaiano e mi fanno paura. Tu sai perché succede questo? Perché non vogliono lasciare questi romeni a vivere qua. Mi racconti una cosa bella? La vacanza in montagna con i bambini stranieri e italiani: Abbiamo giocato e fatto i compiti. Siamo andati a trovare gli anziani. Potevo fare la doccia tutti i giorni, avevo il mio letto e non mi portavano via le mie cose. Abbiamo anche cantato: “Alla scuola della pace puoi ballare e puoi cantare. Vuum! Puoi venire se vuoi”. Hai avuto molto freddo questo inverno? Molto, è male questa vita.
Era il 1937, Nathaniel Simmons, uno degli ideologi del Ku Klux Klan, scriveva: “Niente è più pericoloso che fare male a un bambino. Perché quel male sarà rilasciato, moltiplicato, ogni giorno della sua vita. Il loro male di oggi è il nostro male futuro. Per stare tranquilli, l’unica è ucciderli”
Oggi, a Milano, capitale morale d’Italia (ma altrove è lo stesso), ci sono bambini che vengono perseguitati perché esistono. Legalmente e con soldi pubblici, ed è ancora più grave. Dal 1 gennaio 2010 a Milano sono avvenuti 68 sgomberi, con punte di quattro al giorno. Alle associazioni che chiedevano di fermarsi almeno in inverno, il sindaco Letizia Moratti ha risposto: “La legalità non conosce stagioni”. Qualche tempo dopo un suo consigliere è stato arrestato per corruzione. Il 13 marzo un altro bambino, Emil, è morto bruciato nell’incendio della sua baracca. Il giorno dopo avrebbe compiuto 13 anni. Per fortuna è arrivata la primavera.
Sono perseguitati
(coi soldi pubblici)
perché esistono
di Giacomo Papi (settimanale della Repubblica D)
Amiamo i bambini. Glorifichiamo l’infanzia. E’ una delle poche cose per cui siamo orgogliosi del nostro tempo. Ma è un orgoglio che placa e ci acceca, facendoci distogliere gli occhi. Ciao come stai? Bene! Quanti anni hai? Dieci. Ti piace la scuola? Sì, però mi piace di più la maestra, i compagni, scrivere e matematica. Da grande voglio fare la maestra. Sai leggere? Anche in corsivo. Ma quando sono andata a scuola non sapevo niente di italiano, adesso ho anche amici italiani, delle volte vado a casa loro a giocare. Della Romania non mi ricordo tanto. Sei contenta di essere in Italia? Sì, perché mi date la scuola. Ti piace la TV? Sì, però non ce l’ho. Se avevo una casa guardavo, però non ho.
La baracca di questa bambina è stata resa al suolo dalla polizia all’alba del 19 dicembre 2009, vigilia della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia. Da allora ha dormito in dodici posto diversi, ma ogni volta è stata sgomberata. Oggi vive in una fabbrica abbandonata senza muri, senza soffitto, il pavimento pieno di erbacce e vetri rotti. Nel campo dove viveva, intorno alle ruspe, scorazzavano decine di ratti quasi domestici, ormai abituati all’uomo perché la nettezza urbana per non riconoscere gli abitanti, non è mai arrivata. Per un po’ non ha potuto andare a scuola, poi – grazie alla famiglia, ai volontari della Comunità di Sant’Egidio (santegidio.rubattino@hmail.com) e alle maestre – è tornata. A Milano città i minori in campi abusivi sono circa 300.
In quante scuole sei stata negli ultimi mesi? Due. Perché? Perché hanno sgomberato. Adesso dove dormi? In una tenda che ci ha regalato la maestra. Com’è? E’ grande? E’ verde. Un pochino piccola e un pochino grande. Hai dei giocattoli dentro? No. Mi spieghi com’è uno sgombero? Arriva la polizia nella notte o nella mattina presto, prendono le baracche e ci distruggono le cose, e poi non ci abbiamo dove dormire. Per questo di notte ho sempre paura. Mi hanno portato via anche la mia maglietta della Carica dei 101. Sono gentili i poliziotti? No, lo dicono male che noi andiamo via, urlano le parolacce e hanno i cani che abbaiano e mi fanno paura. Tu sai perché succede questo? Perché non vogliono lasciare questi romeni a vivere qua. Mi racconti una cosa bella? La vacanza in montagna con i bambini stranieri e italiani: Abbiamo giocato e fatto i compiti. Siamo andati a trovare gli anziani. Potevo fare la doccia tutti i giorni, avevo il mio letto e non mi portavano via le mie cose. Abbiamo anche cantato: “Alla scuola della pace puoi ballare e puoi cantare. Vuum! Puoi venire se vuoi”. Hai avuto molto freddo questo inverno? Molto, è male questa vita.
Era il 1937, Nathaniel Simmons, uno degli ideologi del Ku Klux Klan, scriveva: “Niente è più pericoloso che fare male a un bambino. Perché quel male sarà rilasciato, moltiplicato, ogni giorno della sua vita. Il loro male di oggi è il nostro male futuro. Per stare tranquilli, l’unica è ucciderli”
Oggi, a Milano, capitale morale d’Italia (ma altrove è lo stesso), ci sono bambini che vengono perseguitati perché esistono. Legalmente e con soldi pubblici, ed è ancora più grave. Dal 1 gennaio 2010 a Milano sono avvenuti 68 sgomberi, con punte di quattro al giorno. Alle associazioni che chiedevano di fermarsi almeno in inverno, il sindaco Letizia Moratti ha risposto: “La legalità non conosce stagioni”. Qualche tempo dopo un suo consigliere è stato arrestato per corruzione. Il 13 marzo un altro bambino, Emil, è morto bruciato nell’incendio della sua baracca. Il giorno dopo avrebbe compiuto 13 anni. Per fortuna è arrivata la primavera.
venerdì, maggio 07, 2010
Facebook: di male in peggio
Mauro Vecchio in un articolo dal titolo: Facebook, utenti contro la nuova privacy denuncia il malcontento degli utenti di facebook a fronte di modifiche imminenti annunciate.Gli utenti della Rete, si legge, vorrebbero multe severe per siti come Facebook, decisamente più alte del tetto dei 2.500 dollari proposto dal questionario della ricerca condotta tra le Università di Berkeley e Pennsylvania
Abbiamo evidenziato i passaggi piu' significativi dell'articolo:
Alcune ricerche mostrano come gli iscritti al sito siano largamente scontenti delle modifiche annunciate. Vorrebbero multe severe per le società online più negligenti nella tutela dei dati personali
Roma - Si tratterebbe di risultati significativi, come ad inviare agli alti vertici di Facebook un messaggio chiaro: la stragrande maggioranza degli iscritti al social network in blu non è affatto soddisfatta del suo modo attuale di affrontare la delicata questione privacy.
A descrivere un generalizzato malcontento una recente indagine pubblicata da Sophos, azienda specializzata in sicurezza informatica. Ben il 95 per cento degli utenti di Facebook è convinto che le modifiche alle impostazioni sulla privacy di prossima implementazione siano da considerare in maniera del tutto negativa.
L'analisi - condotta da Sophos a partire da un campione di circa 700 tra lettori del suo sito e fan della relativa pagina Facebook - ha inoltre rivelato che soltanto il 2 per cento degli intervistati ha dimostrato buone inclinazioni verso le prossime privacy policy del social network in blu. Mentre un 3 per cento ha sottolineato come queste stesse non siano del tutto chiare.
Al centro delle critiche, il nuovo giro di privacy annunciato da Facebook alla fine dello scorso mese: i dati personali degli iscritti al sito in blu verranno automaticamente indirizzati verso applicazioni terze pre-approvate. A meno che gli stessi utenti non vadano a disattivare la particolare opzione in maniera manuale. A quanto sembra, queste nuove opzioni verranno installate di default su ogni profilo attivo su Facebook.
"Molti utenti di Facebook non sanno nemmeno bene come impostare le proprie opzioni sulla privacy in maniera sicura - ha spiegato Graham Cluley, senior technology consultant di Sophos - E soprattutto non dovrebbero ritrovarsi a disattivare un'impostazione del genere, ma nel caso ad attivarla, dopo aver fatto una scelta consapevole".
Ma a giudicare dalle percentuali di Sophos, la stragrande maggioranza degli iscritti al social network in blu è ben consapevole dei rischi per la propria privacy, giudicando non certo ottimamente l'operato del sito. Secondo un'altra indagine, condotta da un gruppo di ricercatori universitari statunitensi, il popolo social sarebbe nettamente a favore di punizioni esemplari per tutte le aziende negligenti nella tutela dei dati personali.
In sostanza, gli utenti della Rete vorrebbero multe severe per siti come Facebook, decisamente più alte del tetto dei 2.500 dollari proposto dal questionario della ricerca condotta tra le Università di Berkeley e Pennsylvania. E chissà come potrebbero reagire davanti ad alcuni rumor - fatti circolare da esperti di marketing - che vorrebbero il sito di Mark Zuckerberg particolarmente attivo nel campo della pubblicità mirata.
Tra le nuove idee del sito in blu - da presentare a breve nel corso di una conferenza a San Francisco - ci sarebbe quella di implementare dei particolari pulsanti legati allo sharing con alcuni siti web. Agli utenti bastera cliccarci sopra per condividere un link con i propri amici via Facebook Connect.
Una volta condiviso il link, il social network lo considererebbe una sorta di prova di un certo interesse dell'utente. Provvedendo quindi a confezionare abiti pubblicitari su misura degli iscritti, che si ritroverebbero a visualizzare ads personalizzate sul proprio profilo. In pratica, Facebook inizierebbe a tracciare le attività di navigazione dei suoi iscritti, anche se un suo portavoce ha smentito ufficialmente il fatto. Che probabilmente non piacerà ai già sufficientemente adirati utenti.
Abbiamo evidenziato i passaggi piu' significativi dell'articolo:
Alcune ricerche mostrano come gli iscritti al sito siano largamente scontenti delle modifiche annunciate. Vorrebbero multe severe per le società online più negligenti nella tutela dei dati personali
Roma - Si tratterebbe di risultati significativi, come ad inviare agli alti vertici di Facebook un messaggio chiaro: la stragrande maggioranza degli iscritti al social network in blu non è affatto soddisfatta del suo modo attuale di affrontare la delicata questione privacy.
A descrivere un generalizzato malcontento una recente indagine pubblicata da Sophos, azienda specializzata in sicurezza informatica. Ben il 95 per cento degli utenti di Facebook è convinto che le modifiche alle impostazioni sulla privacy di prossima implementazione siano da considerare in maniera del tutto negativa.
L'analisi - condotta da Sophos a partire da un campione di circa 700 tra lettori del suo sito e fan della relativa pagina Facebook - ha inoltre rivelato che soltanto il 2 per cento degli intervistati ha dimostrato buone inclinazioni verso le prossime privacy policy del social network in blu. Mentre un 3 per cento ha sottolineato come queste stesse non siano del tutto chiare.
Al centro delle critiche, il nuovo giro di privacy annunciato da Facebook alla fine dello scorso mese: i dati personali degli iscritti al sito in blu verranno automaticamente indirizzati verso applicazioni terze pre-approvate. A meno che gli stessi utenti non vadano a disattivare la particolare opzione in maniera manuale. A quanto sembra, queste nuove opzioni verranno installate di default su ogni profilo attivo su Facebook.
"Molti utenti di Facebook non sanno nemmeno bene come impostare le proprie opzioni sulla privacy in maniera sicura - ha spiegato Graham Cluley, senior technology consultant di Sophos - E soprattutto non dovrebbero ritrovarsi a disattivare un'impostazione del genere, ma nel caso ad attivarla, dopo aver fatto una scelta consapevole".
Ma a giudicare dalle percentuali di Sophos, la stragrande maggioranza degli iscritti al social network in blu è ben consapevole dei rischi per la propria privacy, giudicando non certo ottimamente l'operato del sito. Secondo un'altra indagine, condotta da un gruppo di ricercatori universitari statunitensi, il popolo social sarebbe nettamente a favore di punizioni esemplari per tutte le aziende negligenti nella tutela dei dati personali.
In sostanza, gli utenti della Rete vorrebbero multe severe per siti come Facebook, decisamente più alte del tetto dei 2.500 dollari proposto dal questionario della ricerca condotta tra le Università di Berkeley e Pennsylvania. E chissà come potrebbero reagire davanti ad alcuni rumor - fatti circolare da esperti di marketing - che vorrebbero il sito di Mark Zuckerberg particolarmente attivo nel campo della pubblicità mirata.
Tra le nuove idee del sito in blu - da presentare a breve nel corso di una conferenza a San Francisco - ci sarebbe quella di implementare dei particolari pulsanti legati allo sharing con alcuni siti web. Agli utenti bastera cliccarci sopra per condividere un link con i propri amici via Facebook Connect.
Una volta condiviso il link, il social network lo considererebbe una sorta di prova di un certo interesse dell'utente. Provvedendo quindi a confezionare abiti pubblicitari su misura degli iscritti, che si ritroverebbero a visualizzare ads personalizzate sul proprio profilo. In pratica, Facebook inizierebbe a tracciare le attività di navigazione dei suoi iscritti, anche se un suo portavoce ha smentito ufficialmente il fatto. Che probabilmente non piacerà ai già sufficientemente adirati utenti.
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